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Swann Ritossa, il freestyler con due milioni e mezzo di follower che racconta il calcio sui social

di Sara Tamburini
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Quando le abilità e il talento si uniscono al potere di un brand personale. Intervista al 37enne triestino, che ai Mondiali di calcio del Qatar ha rappresentato l’Italia. E che per le sue performance professionali si allena sei ore al giorno.

Se il tuo nome è Swann, lo stesso del protagonista del romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, sembri davvero destinato a qualcosa di eccezionale. Ed effettivamente Swann Ritossa qualcosa di eccezionale lo sta facendo davvero: è diventato un calciatore freestyler di fama internazionale.

Ha iniziato a tirare calci a un pallone da bambino e non ha più smesso, anche se il campo su cui gioca è cambiato. Nato a Trieste a metà degli anni ‘80, dopo le scuole superiori si è trasferito a Roma per studiare Design alla Istituzione Universitaria Pubblica di Design in Italia (ISIA). Si manteneva gli studi giocando a calcio, ma si rese presto conto che la carriera universitaria non era compatibile con un impegno così importante.

«Ed è così che ho cominciato a fare calcio freestyle: prima era solo una passione e poi è diventato un lavoro» dice sorridendo. A un certo punto, decise di partecipare a un torneo in Italia: arrivò secondo e da lì sono iniziate numerose collaborazioni con vari brand. «Senza avere la minima idea di come si lavorasse in quel mondo», ammette. «Ho dovuto imparare tutta una serie di competenze che poi mi sono state utili per sviluppare il business».

Al momento, Swann è presidente della squadra professionistica di football freestyle “Fast Foot Football”, con la quale organizza eventi con brand internazionali e crea video virali. Ha fondato poi la Academic Workshop, la prima accademia riconosciuta di calcio freestyle. Il tutto è stato possibile grazie alla sua “Fast Foot Crew”: Anastasia Bagaglini, Omag (al secolo Giuseppe Cardaropoli), Davide Pisani (meglio noto come Dav), Giorgio Luppi aka “Gio”.

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Che rapporto hai con i social media e come gestisci il tuo personal brand?

Premetto che utilizzo i social media per aumentare il più possibile la visibilità della squadra, ma non comunico esattamente tutto ciò che facciamo perché punto a un pubblico più generico, che magari guarda i nostri video anche solo per divertirsi: riceviamo una marea di contatti e con alcuni nascono delle collaborazioni. Nel tempo sono diventato un content creator, quindi vengo pagato per la creazione dei contenuti. Prima era un’attività collaterale al business ma ora, avendo più di due milioni e mezzo di follower, è diventata una parte fondamentale. Nell’ultimo mese, per dare un’idea, abbiamo raggiunto circa 220 milioni di view. I follower sono suddivisi così: 1,3 milioni su TikTok, 980mila sul canale YouTube, oltre 430mila su Instagram.

Te lo immaginavi?

Immaginavo che lo sport come intrattenimento sarebbe cresciuto, ma non avevo idea dell’evoluzione che avrebbero avuto i social, e questo è stato il cambiamento più importante che ha accompagnato il nostro percorso. Quello che mostriamo è divertente, quindi per intrattenere funziona.

Ti avvali del supporto di un ufficio stampa per le tue attività?

No, ma avrei il bisogno di farlo e ne comprendo la necessità. A volte chi lavora sui social e nel mondo digital tende a snobbare il mondo della stampa, invece secondo me può dare un valore aggiunto e in molti casi può funzionare. Anche se forse, nel mio caso specifico, con un utilizzo meno rilevante.

È vero che stai scrivendo un libro?

Sì, è vero. Ho un pre-accordo con una casa editrice perché mi piacerebbe raccontare tutto il percorso fatto per arrivare fino a qui, e vorrei rivolgermi soprattutto ai ragazzi per dire loro che si può vivere delle proprie passioni – se sono supportate dalla competenza, chiaramente. Ora il mercato si è aperto a molte attività non solo nella disciplina sportiva, ma a livello didattico e a livello istituzionale manca la conoscenza. Vorrei scrivere un libro un po’ ispirazionale e un po’ didattico, che possa dare degli spunti a chi lo legge.

Prima di buttarti sui social, hai pensato in che modo differenziarti dagli altri?

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In realtà no, ma per un motivo semplice: i professionisti in questo settore sono pochi, pochissimi, quindi devo ammettere che da questo punto di vista sono stato avvantaggiato. La nostra difficoltà non è stata tanto differenziarci, quanto riuscire ad affermare la nostra attività come una professione. Non è stato semplice riuscire a passare dai ragazzini che palleggiavano per strada a farci percepire come dei performer professionisti, che comunque si allenano sei ore al giorno per fare delle performance legate a questa nuova disciplina. Per riuscire a essere paragonati a performer professionisti abbiamo rilasciato diverse interviste per raccontarci. Poi abbiamo avuto la fortuna di iniziare a collaborare subito con delle realtà molto grandi e questo ha aiutato, ma è stato complesso dover dimostrare che stai lavorando e non ti stai solo divertendo. Aprire questo nuovo mercato, cioè lo sport di intrattenimento in Italia, non è stato semplice.

Parlando di performance, come ti prepari per un evento?

Ti posso parlare di uno degli ultimi eventi, che è stato forse uno dei più grandi che abbiamo mai realizzato: siamo stati i freestyler ufficiali dei Mondiali in Qatar, ed è stata necessaria una preparazione fisica, sia atletica che tecnica, notevole: abbiamo avuto un mese di performance tutti i giorni sul palco.

E la preparazione mentale come si affronta?

Diciamo che piano piano inizi ad abituarti alla pressione, ma la preparazione atletica è allenamento quotidiano. Io faccio palestra tre volte a settimana e gli altri giorni mi dedico al freestyle un paio d’ore al giorno. Comunque si tratta di una disciplina dove si fanno anche gare, quindi se devo partecipare a un contest devo essere preparato mentalmente, non ci può essere margine d’errore. A un evento non succede niente se sbagli, alla gara invece ti mandano a casa.

Un consiglio a un/una freestyler giovane?

Il freestyle è molto difficile, e in generale vedo che le nuove generazioni quando qualcosa non viene facile  tendono un ad arrendersi. Fare freestyle ti mette davanti a delle sfide personali, perché rispetto a uno sport come può essere il calcio, devi lavorare su te stesso e basta. Non c’è un avversario diretto, o meglio ce l’hai davanti quando ti guardi allo specchio, quindi devi ogni giorno lottare, non è un percorso semplice.

Invito chi lo desidera a provare, ma soprattutto a non desistere. Quando all’inizio le evoluzioni con il pallone non vengono, la parte interessante è proprio quella, cioè capire come migliorarsi. Ritornando alla domanda, oggi i ragazzi sono fortunati perché trovano online tutorial di qualunque disciplina, la mia generazione non aveva questa possibilità. Quindi suggerirei di guardare dei video e provare a replicarli: è l’inizio per testarsi in questo tipo di disciplina.

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Secondo te come si fa un buon personal branding?

Penso che sia importante avere una serie di competenze trasversali, e sicuramente saper comunicare bene è tra queste. Poi bisogna essere estremamente curiosi e conoscere molto bene il mondo digitale, perché nascono in continuazione nuove tecnologie, che andranno a impattare anche sul nostro modo di lavorare. Bisogna sempre guardare un passo oltre, cercare di immaginare cosa accadrà e posizionarsi in un modo o in un altro. Mi ricordo che quando è uscito TikTok ho pensato fosse una sciocchezza per ragazzini. Alla fine ho ceduto, ho creato un profilo e dopo un mese avevamo più di 800mila follower. Adesso siamo arrivati a 1milione e 300mila, e questa piattaforma mi ha dato la possibilità sicuramente di andare a parlare con dei brand che non mi conoscevano. Quindi è importante mettersi e rimettersi in gioco continuamente.

 

 

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Sara Tamburini

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