Ha raggiunto la fama internazionale trasformando oggetti di uso quotidiano in opere d’arte. «Ho scritto libri e produco video, ma amo il contatto diretto con le persone e la dimensione familiare»
C’è chi si affida alle agenzie di comunicazione, chi fa da solo, chi ha un intero staff e chi proprio non vuol sentire parlare di brand. Eppure, dietro il lavoro o meglio le opere di Giorgio Di Palma, non solo si è creata una community di fan e acquirenti, ma anche un vero e proprio marchio di fabbrica.
Nato e cresciuto a Grottaglie in provincia di Taranto, una delle città più famose d’Italia, per le sue ceramiche, Giorgio Di Palma si dedica a quest’arte ma in maniera del tutto non convenzionale, arrivando anche a esporre in importanti musei in tutta Italia.
«Volevo allontanarmi dalla mia città, viaggiare e capire quale fosse la mia strada. Così mi sono iscritto ad Archeologia, sono andato via da Grottaglie. Dopo la laurea sono partito, ho vissuto all’estero a lungo ma con una certezza che mi accompagna in ogni esperienza: ogni cosa ha un inizio e una fine. Così dopo due anni a Budapest, dove lavoravo nel settore informatico, nel 2010 ho deciso di tornare in Puglia. A casa. Avevo pochi soldi e non avevo idea di cosa fare».
Perché, dopo aver viaggiato a lungo e fatto tanti lavori diversi, ha deciso di lavorare con la ceramica?
«All’inizio non sapevo esattamente quale fosse la mia direzione, ma durante tutto il periodo trascorso fuori avevo sempre disegnato. Così occupai il vecchio magazzino di mio padre e lì decisi che avrei creato oggetti. Ma non oggetti qualsiasi, tantomeno le solite ceramiche che qui fanno tutti: piatti, bicchieri, tazze, vassoi. No, io volevo ricreare oggetti di uso quotidiano in particolare quelli fatti di plastica in uso a partire dagli anni ‘50-’60».
Ha definito questa sua scelta come “la rivincita dai polimeri”, perché?
«Io le chiamo “le ceramiche di cui non c’era bisogno”, perché ricreo oggetti di uso comune come spazzolini, macchine da scrivere, macchine fotografiche, bottiglie di detersivi, gelati e ghiaccioli, pacchi di sigarette ecc. con il preciso intento di togliere loro la funzionalità e renderli meri oggetti d’arte».
Questi oggetti però ormai sono diventati famosissimi e chi viene a Grottaglie non può non passare dalla sua bottega…
«Quando ho cominciato non avrei mai immaginato che sarebbe successo. Anche perché io ho scelto di non avere un e-commerce quindi si possono acquistare solo venendo qui, dai miei rivenditori esclusivi o contattandomi personalmente. So di andare contro ogni logica del mercato contemporaneo ma la mia è una scelta precisa. Mi piace definirmi – in questo senso – super pop perché amo il contatto con le persone e perché chi viene qui può portarsi via un pezzo da 5-10 euro, come un oggetto molto più costoso, ma prima ci tengo al fatto che chi acquista una mia opera capisca tutto il lavoro che c’è dietro. Ogni oggetto è unico, uso pochissimi stampi, ed evito di fare lavorazioni in serie di tipo industriale».
Uno degli oggetti più famosi che ha creato è il palloncino in ceramica. In Puglia e non solo, ormai è un cult che è stato persino copiato…
«All’inizio – devo dire – mi ha fatto molta rabbia non solo che lo copiassero ma in generale che venissi riconosciuto come “quello dei palloncini” o “delle barchette” (le barchette di carta riprodotte in ceramica, ndr) e non per tutto il resto della mia immensa produzione. Ora non ci faccio più caso».
Nonostante il suo sia ormai un nome più che noto in generale nel mondo del design e dell’arte contemporanea, lei rifiuta l’idea di brand. Perché?
«Ho sempre voluto tutelare il mio nome e fare scelte etiche. Non considero il mio lavoro un business e non voglio trasformare la mia bottega in un’azienda. Anche se ho i numeri per farlo, non mi interessa guadagnare di più, perché non potrei mai snaturare il mio progetto che vuole essere artigianale fino alla fine. La mia idea di personal brand, infatti, è proprio questo: restare piccolo, continuare a realizzare le opere in una dimensione “famigliare”, come ho sempre fatto e rivolgermi a un pubblico che comprende e apprezza il mio lavoro».
Il suo lavoro però è fatto anche di relazioni, di presenza online, di partecipazione a eventi e mostre a cui non si sottrae. Come riesce a conciliare tutto con le sue scelte?
«Innanzitutto attraverso la selezione. Ultimamente seleziono qualunque evento o proposta di collaborazione mi viene fatta e le scelgo accuratamente, solo se il progetto mi piace e mi rispecchia. Gestisco i miei social da solo, anche perché ho un modo di raccontare che nessuna agenzia o social media manager potrebbe fare. Mi faccio aiutare, però, con le foto da un mio amico. Perché sono un perfezionista e non pubblico foto se non le ritengo perfette».
Nonostante faccia tutto da solo, cura molti aspetti del suo lavoro e del suo…brand
«Mi dedico a molte cose, alcune indispensabili per far capire chi sono e cosa faccio. Questa mia esigenza di raccontare, ad esempio, si è concretizzata in 3 libri autoprodotti e a tiratura limitata. Ma trascorro molto tempo anche disegnando e producendo video».
Come YouTuber?
«No, non potrei mai definirmi YouTuber. I miei video nascono esclusivamente da un bisogno di racconto, ma non ho né la costanza né l’intento di chi fa questo per lavoro. Infatti spesso sparisco, chiudo tutto e parto. Perché a volte bisogna sparire per un po’, ricaricare la propria creatività, fare una pausa dalla routine e tornare con qualcosa di ancora più interessante da esprimere».