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Vittorio Sgarbi, il primo nome che ci viene in mente quando pensiamo a “critico d’arte”

di Valentina Tafuri
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È probabilmente il migliore esempio di personal branding di successo. Critico d’arte, autore di libri, curatore non solo di mostre ma anche di spettacoli teatrali, personaggio televisivo, politico. Vittorio Sgarbi resta IL critico d’arte per antonomasia. «Esempi storici di brand che resistono nel tempo? Caravaggio, Pasolini e Carmelo Bene».

 

In che momento Vittorio Sgarbi è diventato Sgarbi?

Nel 1990, quando avevo 38 anni, scrissi un libriccino per Vanity Fair intitolato “La mia vita”, con foto di Helmut Newton, che grosso modo iniziava così: «Correva l’anno 1961, quando compresi che sarei diventato un personaggio storico».

Quanto c’era di persona e quanto di personaggio in quella fase?

All’epoca c’era un giovane uomo che era stato un adolescente chiuso in un collegio, dove era tutto proibito, anche leggere – eravamo nel ’65/’66 – in un clima di repressione che fu utile a determinare la mia volontà di rivolta. Poi arrivò il ’68, ero tornato alla scuola pubblica, dove mi sembrava di godere di libertà assoluta e non capivo bene di cosa si lamentassero i miei compagni, ma la rivendicazione era così forte che divenni uno dei leader del movimento studentesco. Mi ritrovai a fare assemblee davanti a 700/800 persone con un’eloquenza che gli altri studenti non avevano. Quello è stato il mio primo rapporto con la folla ed un’esperienza formativa fondamentale.

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All’università coltivai un’orgogliosa solitudine studiando quasi sempre da solo. Conobbi un grande professore, Francesco Arcangeli, che aveva uno spirito rivoltoso non diverso da quello degli studenti, che era orientato ideologicamente. La mia riserva formativa era fatta della lettura di Benedetto Croce e mi trovavo ad avere una funzione alternativa rispetto ai dogmi che erano stati imposti in quegli anni. Ho sempre avuto una ribellione sia rispetto alla repressione sia rispetto alla rivolta, cioè ho sempre mantenuto una posizione individuale, che è quella che mantengo tutt’ora in Parlamento.

Attraverso queste esperienze la persona dunque inizia a forgiare il personaggio. Qual è stata la “promessa di valore” che l’ha resa particolare?

L’orientamento verso la storia dell’arte. Grazie alla forza persuasiva del professor Arcangeli passai dalla letteratura alla storia dell’arte, che fin dai diciotto anni è diventata il mio orizzonte privilegiato.

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La sua popolarità, almeno tra i non addetti ai lavori e la crescita del brand Sgarbi, è legata alla presenza come ospite di trasmissioni televisive, specie di Maurizio Costanzo. Com’è andata?

Quella è stata la fase successiva a quella cartacea. Pubblicai il mio primo libro nel ’77, nel ’78 diventai giornalista dell’Europeo, nell’85 il mio libro “Il sogno della pittura” vinse il Premio Estense. Poi, diventato critico d’arte con una fama di ribelle, fui invitato da Costanzo. Indubbiamente ebbi grande visibilità. Litigai con lui e la mia impertinenza lo indusse a non invitarmi per due anni. Nell’89 invece di prendermela con lui me la presi con alcuni personaggi grotteschi della televisione: inaugurando una serie di uscite televisive nelle quali non rispettavo le regole dell’ingranaggio del quale ero chiamato a far parte, sono diventato un po’ come quello che fa saltare il banco al casinò. Questo spiazzare è stata la mia intuizione vincente, per altro non prestabilita.

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Quindi il suo essere personaggio non è premeditato.

No, assolutamente. La mia caratteristica è che la diretta, la televisione sembrano fatte per me. In fondo il reality show l’ho inventato io, nel senso che anche con Sgarbi Quotidiani ho inaugurato questa forma di monologo che oggi è molto diffuso. Si pensi a YouTube e ai social, che allora non esistevano.

Il suo brand non è (mai stato) studiato dunque?

No. È come una candid camera, mi comporto in televisione come se non sapessi di essere ripreso. Non assumo l’atteggiamento che il luogo richiede. Quello che farei senza essere in televisione, lo faccio in televisione. È l’effetto reality show.

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Photo: Nino Ippolito

La sua comunicazione personale e professionale è fatta di libri, di TV, di eventi artistici e teatrali, di attività politica. È anche molto attivo sui social network. Dietro a tutto questo c’è una strategia e come è cambiata negli anni?

La mia strategia intuitiva è stata solo quella televisiva. Negli ultimi anni sono subentrati i social network: i miei due uffici stampa hanno avuto questa idea di trasferire su di essi le mie uscite televisive e così mi sono ritrovato a essere riconosciuto anche dai ragazzi che, quando ho fatto alcune cose, magari non erano ancora nati. Ora mi vedono su YouTube o su Facebook e parlano di quando ho mandato a quel paese la Mussolini o D’Agostino. Questa operazione mi ha reso noto alle nuove generazioni, anche a dispetto di personaggi che hanno fatto televisione per molto più tempo di me, come Pippo Baudo. Ma di lui su internet non è stato trasferito quasi niente.

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Quale strumento di comunicazione le è più congeniale?

I video, sia televisivi che spontanei. Durante il Covid, per esempio, sono stati una presenza quotidiana che dava una visione diversa da quella del Governo. Ovviamente anche la parte scritta resta importante, sia gli articoli che i libri.

Secondo lei c’è un artista o un personaggio storico che può essere considerato come un esempio di personal branding?

Pier Paolo Pasolini, perché è l’unico intellettuale italiano che sia sopravvissuto alla sua morte. Ancora ci si misura con lui, con la sua visione anti-moderna, interessante sia per la destra che per la sinistra, insieme a Carmelo Bene ma forse in modo anche più radicale o radicato.

E, provocatoriamente, tra i pittori del passato?

L’unico che sbaraglia tutti è Caravaggio, per ovvie ragioni. In una mostra al MART, in cui ho iniziato un collegamento di artisti contemporanei con artisti del passato, Pasolini è un testimone moderno della contemporaneità di Caravaggio.

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C’è una forma di comunicazione che non ha ancora esplorato e che vorrebbe sperimentare?

Mi sembra interessante questo Tik Tok. Occorre non perdere nessuna opportunità. In modo intenzionale ho visto trasferire su internet cose fatte da me di 30 anni fa, che continuano ad avere una grande forza attrattiva, come se fossero di oggi. Questo processo è interessante. Ne Il Promesso Sposo, Barbara Alberti osservò che sono stato l’inventore dei reality, nel senso che ho usato la tv in chiaro dell’epoca un po’ come oggi fanno gli influencer con YouTube e Instagram. Oggi sono il quarto politico italiano su Facebook con oltre due milioni di follower e non ho un partito. Non capisco perché quel Fedez ne abbia più di me! Oltre tutto c’è un problema di comunicazione perché io comunico dei pensieri pensanti, loro comunicano dei pensieri inconsistenti. Sarò attrattivo per la vis polemica ma pur sempre sofisticato rispetto ai balletti di un Vacchi!

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Ritratto di Piero Tonin

Ma perché un personaggio già così noto come lei ha ancora voglia di essere presente sui social?

Non ho mai aperto il mio Facebook ma la mia struttura ha condotto questa operazione di ‘traduzione’. È l’idea di avere una visione, un pensiero e di trasferirlo nella lingua più diffusa. Il linguaggio di cui stiamo parlando non è una mia ambizione personale, che è ampiamente appagata, sono un uomo già molto felice. Ma dal momento che esiste una potenza di fuoco di questi media, mi pongo il problema meramente strumentale di utilizzarla fino in fondo non per motivi personali, ma operativi. Utilizzo la tecnologia che il tempo in cui viviamo mi mette a disposizione. Possiamo trattenere qualcuna delle condizioni privilegiate del passato, ma non possiamo prescindere da alcune invenzioni che hanno cambiato le sorti dell’umanità, come l’invenzione dell’elettricità. Per cui, questo è il mio rapporto con la tecnologia: come non rinuncio alla luce elettrica, non rinuncio a Instagram e a queste altre c***… La cosa migliore sarebbe stata averle inventate noi!

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Valentina Tafuri

Photo: Instagram

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