Un tempo, un informatico triste. Oggi, un Fedro o un Esopo felice, uno che di storie vive e lavora. Capelli lunghi e lisci, occhialini tondi, barba incolta, una camicia che sta sempre fuori dai pantaloni e una sobrietà piuttosto dimessa, che è diventata il suo brand, riconoscibile sia quando è sul palco, che quando parla da casa. C’è chi lo considera un istrione, chi un matto, chi un egocentrico, chi un narcisista. Di certo, c’è che ha una laurea in Ingegneria, è un appassionato di letteratura, per preparare spettacoli o scrivere libri studia tanto e che le favole con una morale e una base scientifica sono il suo forte, forse la ragione di tanto successo. Tanto che a seguirlo sono più di 300mila follower (tra il canale YouTube e la pagina Facebook).
Mi appassiono a una storia, la studio e la trasformo, la scrivo e la recito.
Lui è Roberto Mercadini, nato a Cesena, nel ’78. Per dieci anni ha avuto a che fare con la programmazione di software: «Poi – racconta a Business Celebrity – sono finalmente diventato me stesso. Non nascondo che ho faticato. Da ragazzino la mia eccentricità mi ha fatto soffrire. Ma da alcuni anni ne sono orgoglioso, la rivendico e mi considero uno fortunato, perché grazie alla mia originalità oggi posso fare un lavoro che mi appassiona. Scrivere mi è sempre piaciuto. Ricordo che la mia professoressa di italiano delle scuole medie ci invogliava a creare poesie, racconti. Io ero uno dei migliori. Mi veniva naturale. È stato proprio a quell’età, 12 anni, che ho pensato: da grande voglio vivere di storie, scrittura e parole. Non ho mai sacrificato la mia fantasia neanche quando ero impiegato e facevo l’informatico. Ricordo che una volta venne a vedermi una mia amica a teatro. A fine spettacolo, riportandomi le parole di un suo conoscente, mi disse: “È bello vedere uno che fa quello per cui è nato”. Fu una illuminazione. Cominciai a pensare di lasciare il posto fisso per inseguire la mia natura. C’è una poesia di Sandro Penna che ti fa capire quanto stupida sia l’idea di snaturarsi. Dice: Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune. Niente di più forte per rimarcare la necessità di essere fedeli a se stessi».
Divulgatore, narratore, attore, scrittore. Hai scritto e presentato venti monologhi e tre libri. In fondo, cosa sei?
A me sembra di fare un’unica cosa, in realtà: raccontare storie. Lo faccio in molte forme, in teatro e su YouTube. È come se fossi uno scultore che crea, ma utilizzando un po’ il marmo, un po’ il bronzo, un po’ la terracotta. Si tratta di manifestazioni diverse di una stessa essenza. Sono un poliedro. Mi appassiono a una storia, la studio e la trasformo, la scrivo e la recito. Le mie storie partono da fatti concreti. Ci lavoro, aggiungendo una morale, un messaggio, per fare in modo che siano universali, valide per tutti e in ogni epoca.
Nel libro “Bomba atomica” di due anni fa racconti la storia di personaggi esplosivi. Che ti assomigliano. Ce n’è uno che ti ha stregato?
Sì, ed è quello penso più riuscito. È quello di Robert Oppenheimer, il fisico statunitense che era il capo scientifico del progetto della bomba atomica. Quando vide deflagrare non quella di Hiroshima, ma il fungo che esplose durante il Trinity Test nel deserto del New Mexico, declamò un poema indù, in cui si paragonò alla morte, a un distruttore. Per anni a divorarlo fu il senso di colpa per quello che i suoi studi avevano prodotto. Questo personaggio mi ha intrigato e non solo per la sua faccia scavata, ma anche perché riusciva a conciliare l’amore per la scienza con quello per la poesia.
Cosa fai in concreto, sostituisci scienziati, giornalisti, storici, che non fanno bene il loro lavoro?
Ma no. Al contrario. Quello che per loro è un prodotto finito, per me è materia prima per i miei lavori.
Chi sceglie, invece, look e location per i tuoi spettacoli e i tuoi video?
Sempre io. Non ho un look tanto diverso quando sono sul palco. Uso camicia fuori dai pantaloni. Solo che a teatro mi vesto di nero. Ma non sono mai elegante. Ho trovato un modo di vestire che mi fa sentire a mio agio. Quanto alla location, è sempre la stessa. Se non è il palcoscenico, è il frutteto dietro casa mia o la mia casa con la libreria alle spalle.
Come riesci a gestire nel contempo il tuo brand, quello personale, con quello di scrittore e attore?
Tento di scrivere cose che sembrano la forma letteraria dei miei monologhi teatrali e faccio monologhi teatrali che sembrano la narrazione dei miei libri. Faccio in modo che ci sia un’unità tra queste espressioni artistiche. Così divento facilmente riconoscibile.
Come ti vedi tra una decina d’anni?
Non mi va di fantasticare. Spero solo di essere diventato migliore con dieci anni di studio in più.