Quando manca la cultura del brand personale, le aziende faticano a gestire le crisi di immagine. E si rifugiano in una comunicazione inadeguata, che produce effetti nocivi
Il crisis management e la crisis communication rappresentano senza dubbio lo spauracchio dei comunicatori. Ognuno spera di evitare quelle fasi delicate della vita di un’azienda (o di un professionista) nelle quali si finisce “stritolati” dal tritacarne mediatico. Eppure, nonostante da qualche decennio siamo tutti entrati nell’era della comunicazione, ancora emergono carenze diffuse e mancanza di strategia nel saper rispondere col tono giusto, nell’informare correttamente, nel chiarire e controbattere, nel fornire in maniera chiara ed esaustiva la propria versione dei fatti. Persino nel rispondere alle accuse, o semplicemente chiedere scusa.
Occasione di riflessioni a riguardo se ne ritrovano nella recente vicenda che quest’estate ha visto coinvolta una catena di hotel della Gallura, in Sardegna, dove la trovata della statua (umana) di cioccolato al centro del buffet ferragostano è diventato un vero e proprio “caso”.
A farlo scoppiare è stata la pubblicazione di un post su LinkedIn da parte di uno degli ospiti della struttura (un manager lombardo che si occupa di Risorse Umane) che – raccontando l’accaduto – sottolineava il disagio vissuto dalla figlia quattordicenne. La quale avrebbe commentato «questo non è un Paese dove potersi realizzare», evidentemente riferendosi alla ennesima banalizzazione della figura femminile, ridotta a bella-statuina, senza parola né cervello.
L’azienda ha attuato una strategia di comunicazione quantomeno singolare. Prima rispondendo direttamente al post su LinkedIn, scusandosi con lui e con gli altri clienti. A questo è seguito una ancor più asettica dichiarazione, piuttosto generica: di fatto, un’assunzione di responsabilità, una dichiarazione di intenti a realizzare e diffondere i valori aziendali e a «fare fronte direttamente ai commenti e alle critiche che stiamo ricevendo». Una risposta curiosa visto che l’azienda ha poi deciso di non rilasciare interviste a riguardo. In sintesi, una comunicazione di crisi, questa, che non ha convinto, a fronte del polverone alzatosi e alimentato dai commenti sui social.
Una storia tutt’altro che divertente, dove a essere tirate in ballo ci sono le persone con la loro dignità. Oltre a quella di chi ha assistito a questo “spettacolo” e si è sentito offeso, la dignità calpestata è quella della giovane ragazza al centro della bufera. Per lei nessuna scusa, da lei nessuna dichiarazione. Specialmente fra coloro che nell’hotel lavorano, nessuno che abbia commentato o cercato di creare empatia, smorzando magari i toni o soltanto chiedendo scusa.
Non c’è stato nessuno che ci abbia messo la faccia creando una connessione umana, reale, con il “pubblico”. Per esperienza sul personal branding, sappiamo che una dichiarazione fatta in prima persona – rilasciata da uno dei manager dell’azienda a cui l’hotel appartiene – avrebbe potuto sortire un effetto migliore rispetto a un freddo comunicato stampa.
In quel modo si sarebbe potuto spiegare (e scusare) un accadimento che ha generato una valanga di critiche, sebbene (forse) chi l’aveva ha ideato e realizzato non pensava di offendere nessuno. Metterci la faccia avrebbe creato un minimo di empatia e comprensione, attenuando la gravità dell’episodio increscioso, facendo “sentire” che l’azienda aveva capito fino in fondo il proprio errore ed era pronta a rimediare attraverso atti concreti. Primo fra tutti, impegnandosi a divulgare una cultura del rispetto dell’altro, a prescindere dal sesso o da qualsiasi altra caratteristica personale.
Acquisire capacità di comunicazione personale – anche attraverso la costruzione di un brand personale all’interno di una organizzazione o di un’azienda – è fondamentale per dare credibilità e affidabilità a quest’ultima. Ogni manager non può prescindere da questa assunzione di responsabilità.
In questo caso è mancata una figura “forte” da questo punto di vista, capace di intervenire personalmente, dando un volto all’azienda, prendendosi una grande responsabilità, compreso il rischio di attacchi e ulteriori polemiche. Soltanto sviluppando la capacità di assorbire e rispondere, si riesce a ripristinare quel dialogo necessario a gestire la reputazione aziendale.
La vicenda della “ragazza di cioccolato” si sarebbe attenuata anche grazie all’esistenza di ambassador aziendali, ovvero di persone interne all’azienda – con un proprio seguito sui social network e nella società reale – che hanno la credibilità per fare da portavoce su tematiche come i valori aziendali. Le stesse persone che oggi, nell’ambito delle risorse umane, fungono da attrattori per i nuovi talenti – “sponsorizzando” il clima aziendale, i plus e le possibilità di crescita offerte dall’azienda – avrebbero potuto testimoniare quei valori di rispetto della dignità della persona. Valori che, con questa superficiale iniziativa, sono stati improvvidamente calpestati.
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