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Mylena vocal coach, personal brand da comunicare a piena voce

di Valentina Neri
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Chi vuole diventare un volto noto del proprio settore ormai ha fatto a patti con l’idea di curare il proprio look, mostrarsi spigliato davanti alla telecamera, mettere nero su bianco le proprie idee (magari con l’aiuto di un ghostwriter). Ma che dire della voce? Raramente viene descritta in questi termini, ma è un biglietto da visita potentissimo che dice molto sulla nostra identità. C’è anche chi si vergogna della propria voce ma si è rassegnato ad accettarla così com’è, convinto del fatto che solo cantanti e attori la sappiano padroneggiare.

A sfatare questi e altri miti è Milena Origgi alias Mylena Vocal Coach, ideatrice del metodo Inborn Voice. Oltre ad aver costruito in prima persona un personal brand di caratura internazionale, Mylena Vocal Coach quotidianamente aiuta persone molto diverse tra loro – dal manager allo studente – a usare la voce con consapevolezza, trasformandola in uno strumento per comunicare il proprio valore più autentico.

Sappiamo che oggi sei un punto di riferimento a livello internazionale nel tuo settore, ma facciamo un passo indietro: puoi raccontarci brevemente com’è iniziato il tuo percorso?

Un percorso lungo una vita, sempre legato alla voce. Ho iniziato come bambina prodigio all’età di sei anni. Già allora la mia dote, una voce angelica, risuonava nel coro della chiesa. Ho dedicato circa 15 anni al canto, fino a diventare una cantante professionista, ma solo verso i vent’anni ho iniziato a comprendere che le mie doti e capacità erano destinate ad andare ben oltre. Sono appassionata a tante altre tematiche, infatti ho studiato lingue e letterature straniere (tra cui il giapponese), medicina e cultura orientale. Tutte le mie curiosità mi hanno trasformato in una vocal coach che ora si dedica ad aiutare gli altri a esprimere la loro identità nel mondo. Ho scritto più libri, l’ultimo si intitola appunto La via della voce, dove racconto i miei primi anni di carriera e l’origine del metodo Inborn Voice. Oggi vivo e lavoro a Boston, ma ho anche uno studio a Milano, uno a Londra e ben presto ne aprirò uno a Los Angeles e uno a New York.

C’è stato un momento in cui hai capito che la tua scommessa professionale stava funzionando?

La mia professione è stata illuminata da una serie di eventi e di porte che si aprivano come per magia, forse per un destino. Ho iniziato dedicandomi all’insegnamento del canto. Pian piano mi sono accorta che i miei allievi non volevano realmente cantare, a loro non interessava ottenere una voce melodiosa, armonica o intonata. Volevano solo esprimersi, dare appunto voce al loro essere. Quasi trent’anni fa ho quindi iniziato a sviluppare un mio metodo di insegnamento, quello che mi ha portato ad elevarmi a professional ed executive Vocal Coach: Inborn Voice, ovvero un metodo volto più a riconnettere la voce alle proprie emozioni, al proprio io profondo.

Sono stati gli effetti collaterali del mio lavoro a portarmi al successo internazionale. I risultati ottenuti dai miei clienti, le loro nuove capacità di usare la voce per esprimere liberamente idee, opinioni, competenze ed esperienze, hanno creato una spirale di eventi. Le loro carriere sono decollate e il passaparola sul mio lavoro ha raggiunto vette sempre più alte nel mondo del business e della finanza. Oggi mi occupo ancora marginalmente del canto ma il 90% del mio lavoro è dedicato a Ceo, imprenditori, persone comuni e giovani che cercano di liberare la loro voce e con essa le loro personalità e professionalità. Ci sono anche genitori che hanno capito l’importanza di far partire con il piede giusto i propri figli e cercano il mio aiuto per evitare di trasmettere loro cattive abitudini espressive.

Al di fuori del passaparola, l’evidenza più grande del mio successo in Italia è arrivata da Internet. Il mio sito era – ed è – il numero uno in Italia e anche il più copiato. Sempre più persone utilizzano alcuni vocaboli tipici del mio lavoro, ad esempio “Consapevolezza Vocale”, “Identità Vocale” o “Risonanza Spirituale”, ma direi che è un outcome normale di ogni successo.

Qual è la differenza tra il tuo lavoro di vocal coach e quello di un insegnante di canto?

In Italia si è abusato del termine vocal coach quando sono iniziati i programmi televisivi dedicati al canto. In realtà nel mondo anglosassone l’insegnante di canto è il singing teacher. Il Vocal Coach fa molto di più che curare l’aspetto tecnico perché tiene in considerazione, oltre alla voce, anche i valori, le emozioni e le interazioni con gli altri in modo che l’intero pacchetto sia poi coerente con la propria identità.

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È un discorso complesso, magari un esempio può aiutare. Un insegnante di canto, come dice la parola stessa, insegna le stesse cose, allo stesso modo, ad ogni persona. L’insegnante immette nuove idee, nuove tecniche, nuove modalità nei suoi allievi. Questo genera tutta una serie di cloni vocali. Il risultato può anche essere piacevole da ascoltare, ma in genere è privo di espressività, di emozioni e soprattutto di identità. Io, in qualità di vocal coach Inborn Voice, faccio esattamente l’opposto. Non cerco di aggiungere nulla di nuovo ai miei clienti, cerco di rimuovere quanto è già stato appreso (magari inconsciamente) e in qualche modo impedisce loro di esprimere o persino riconoscere la propria identità. Ogni mio cliente è un’identità e come tale esprime qualcosa di unico quando è riallineata con la propria Inborn Voice.

Lavoro principalmente con persone che non si riconoscono più nella loro voce, che addirittura odiano la propria voce, persone che in qualche maniera provano un vuoto emozionale o – peggio – non riescono a trasmettere la loro passione, la loro forza, la loro energia vitale agli altri durante una conversazione. Veri e propri diamanti grezzi.

Negli ultimi 15 anni ho iniziato una vera e propria lotta con chi pretende di insegnare a cantare imbrigliando la voce, sono stata la prima a voler liberare la voce.

A rivolgersi a te sono persone molto diverse tra loro per età, esigenze e professione: puoi farci qualche esempio?

Arrivano da me grandi Ceo di multinazionali di primissimo ordine. La globalizzazione li ha portati a dover rappresentare la loro società e presentare nuovi prodotti in eventi trasmessi globalmente. I risultati spesso hanno lasciato di stucco non solo loro, ma anche i loro più stretti collaboratori. Ma io sono felice quando mi ringraziano, oltre che per i risultati ottenuti durante i keynotes, per quelli ottenuti nella loro vita personale, in famiglia. Il tono, il colore, l’attenzione, sono tutti elementi che trasmettono messaggi. Non basta pronunciare una parola di affetto, occorre anche darsi il tempo di provare l’emozione ad essa collegata, per poi trasmetterla con la voce.

All’estremo opposto arrivano da me anche ragazzi pronti a iscriversi all’università. Negli States e in Oriente la competizione per lo studio è davvero estrema. Per entrare nelle università più esclusive occorre anche sostenere una presentazione di fronte a una commissione. Uno di questi ragazzi mi è stato mandato dalla madre perché affetto da “Social Anxiety Disorder”, ovvero Disturbo d’ansia sociale. Aveva il terrore di sostenere questo colloquio e persino i suoi professori gli sconsigliavano di provarci. In realtà era solo estremamente timido e sono fiera di poter dire che non solo è stato accettato presso l’università di sua prima scelta, ma è anche riuscito a trovare una fidanzata e degli amici. Non solo i suoi genitori, ma anche i suoi professori, sono rimasti sconvolti dalla sua eccezionale fioritura.

Perché la voce può diventare uno strumento di personal branding?

Ci terrei a fare una distinzione tra personal brand e personal branding, magari in Italia è facile confondere le due cose.

Personal brand è chi si è nel proprio profondo, i propri valori, i propri tratti caratteristici, direi il proprio carisma. Il nostro personal brand guiderà le nostre azioni, le nostre reazioni e i nostri interessi. Ogni interazione con gli altri rinforzerà il nostro brand nel loro ricordo. Tutti hanno un personal brand, che ne siano consapevoli o meno. La Inborn Voice, quella che ho definito nel mio metodo, è esattamente alla base di questo personal brand, con una precisazione. Molte volte le persone preferiscono tacere o esprimersi utilizzando schemi appresi all’esterno che non corrispondono con il proprio brand. Un po’ come indossare un abito inadatto. Ci si veste di nero per non farsi notare, ci si veste da uomo d’affari quando in realtà il proprio io profondo è quello di un artista. Con il mio “riallineamento vocale” vado proprio ad agire su questi elementi, cercando di rimuovere quanto è stato appreso di sbagliato per dare modo alla nostra essenza di fiorire ed essere autentici con il nostro personal brand.

Per fare un esempio, se ci si trova in una riunione del proprio gruppo di lavoro e improvvisamente entra il capo, cosa accade nei partecipanti? Cosa pensano, che emozioni provano, come si sentono? Sicuramente l’aria nella stanza cambia. Qui è dove il proprio brand acquisito entra in atto. Magari chi aveva l’idea migliore sceglie di non esporla, chi ha l’idea peggiore viene sostenuto da chi non vuole apparire silenzioso, e così via. Gli equilibri vengono alterati. Ecco perché il mio lavoro di team building nelle aziende è sempre più richiesto. Perché il valore aggiunto dai vari brand disallineati non corrisponde alla realtà. E se ci pensate bene, tutto è legato alla voce. Forse negli anni ’70 e ’80 l’abito era importante, oggi contano solo le idee, e le idee si comunicano solo con le parole, con la propria voce, in poche occasioni che non vanno lasciate scappare.

Il personal branding invece, è l’immagine che gli altri costruiscono su di noi grazie ai social media e alle altre attività virtuali. Oggi i video, le stories e i podcast la fanno da padrone ed è quindi fondamentale riuscire a veicolare le proprie emozioni e le proprie idee di fronte a una telecamera. Molte persone preparano uno script e sfruttano i tagli di montaggio per cercare di avere il controllo sulla loro comunicazione. Chi sceglie di lavorare con me si accorge dell’intrinseca falsità di questo approccio e – sono fiera di dirlo – può vantare un “buona la prima”. Perde molto meno tempo di preparazione e di post produzione e comunica meglio la propria visione.

In fondo il nostro brand è quello che rimane nella memoria di chi ci ha incontrato. Si può sicuramente imparare a costruire un branding di successo, ma se questo non corrisponde poi al brand che esprimiamo dal vivo, si rischia un grande flop.

Quali sono le situazioni in cui pesa la mancanza di un lavoro sulla voce e perché? Nel tuo blog, per esempio, citi l’audizione di Mark Zuckerberg al Congresso statunitense.

Andando a riguardare quei video risulterà facile comprendere a tutti la differenza tra il personal branding costruito per lui e il suo reale personal brand. Ogni volta che si prova a vendere una competenza che non si ha davvero nel proprio profondo, la voce ci tradisce. Non basta indottrinarsi, conoscere la teoria, e neppure la pratica. La differenza tra un grande Ceo e una persona qualunque che si trova catapultata nel ruolo di Ceo appare evidente. Questo non vuol dire che una persona qualunque non possa diventare un grande Ceo, anzi. Occorre innanzitutto comprendere che è impossibile impersonare chi non si è ed è inutile rivolgersi a coach che pretendono di insegnarvi come farlo. Solo con un approccio simile a quello di Inborn Voice è possibile fare trasparire chi si è realmente pur indossando gli abiti di un Ceo. Cito sempre gli spot di Apple. “I’m a Mac” nasce da Steve Jobs. Lui è stato uno dei più grandi Ceo di sempre eppure non ha mai rinunciato alla sua identità. Oggi molti coach insegnano a imitarlo, ma secondo me sbagliano. I cloni non sono mai bene accetti, anzi spesso vengono derisi. Occorre trovare la propria Inborn Voice per farla fiorire all’esterno.

Invece, per noi comuni mortali, quando manca una connessione tra Inborn Voice e voce, solitamente nasce un’infelicità. Ad esempio troviamo persone che si lamentano di “non vedere riconosciuto il proprio valore”, che si vedono rubare la promozione tanto agognata, che soffrono nelle relazioni perché si aspettano di vedere negli altri una reazione che invece manca. Forse è necessario comprendere che il nostro modo di comunicare è carente e va ripristinato. Molte volte una persona è convinta di essere riuscita a fare passare il suo messaggio, ma in realtà dall’altra parte è arrivato tutt’altro. Per me, per Inborn Voice, comunicare è molto di più che un passaggio di parole da una persona all’altra, ma uno scambio di infrasuoni, di emozioni e di intese che avvengono alla velocità della luce.

 

Valentina Neri

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