In questa intervista, il giornalista televisivo ci svela il suo impegno per mantenere un’immagine professionale solida, senza perdere la propria identità. «Brand personale? Mi metto in gioco e provo a fare cose che altri eviterebbero, senza seguire schemi fissi o percorsi predefiniti. Non uso i social per fare notizia, ma per condividere qualcosa di autentico. Ai giovani dico di non fermarsi ai 30 secondi di TikTok: non accontentatevi della superficialità, di un titolo letto di fretta…»
Marco Mazzocchi, nato a Roma il 13 aprile 1966, è un giornalista e conduttore televisivo che ha saputo costruire un percorso professionale autentico e duraturo, diventando un esempio di personal branding naturale. “Figlio d’arte” di Giacomo Mazzocchi, ha iniziato nel giornalismo sportivo collaborando con testate come “La Stampa” e “Radio Dimensione Suono”. Il suo volto è diventato familiare al grande pubblico grazie a programmi RAI come “Novantesimo Minuto” e “La Domenica Sportiva”, che lo hanno consacrato come punto di riferimento del giornalismo sportivo.
Mazzocchi ha sempre preferito raccontarsi attraverso il lavoro, piuttosto che inseguire strategie preconfezionate. Ha affrontato sfide come la realizzazione del documentario sul monte K2, dove ha mostrato la sua capacità di narrare storie intense e appassionanti. La partecipazione a “Pechino Express” nel 2020 ha poi rivelato la sua versatilità, mostrando un lato più umano e personale.
La chiave del suo successo? Il non prendersi mai troppo sul serio. «Faccio ciò che mi piace e che mi fa piacere, senza seguire strategie», ha dichiarato. Il personal branding di Marco Mazzocchi non segue le regole tradizionali, ma dimostra che essere fedeli a sé stessi è una strategia vincente.
Come nasce la passione di un narratore sportivo?
Fin da bambino, il richiamo della parola era irresistibile. Dai banchi di scuola al campetto di calcio, c’era sempre un’occasione per mettere in scena una narrazione. Avevo tra i 10 e i 14 anni e amavo raccontare, dare voce alle storie, per trasformare il quotidiano in narrazione. Quando a scuola c’era da leggere un brano ad alta voce, ero il primo a propormi. E non mi limitavo a leggere: imitavo i grandi conduttori televisivi, modulavo la voce, cercavo di rendere quelle righe vive, come fossero il monologo di un presentatore consumato. Anche nel gioco, la parola non mancava mai. Sul campo da calcio, non bastava correre dietro al pallone: mentre giocavamo, interpretavamo calciatori famosi e io facevo anche la telecronaca. Parlavo mentre correvo, descrivendo ogni azione con la stessa enfasi che avevo sentito mille volte nei programmi sportivi. Era naturale, quasi istintivo. Quella passione per raccontare ciò che vedevo intorno a me stava già prendendo forma.
Poi c’era mio padre, un uomo che nella vita aveva fatto tanti lavori ma che aveva trovato la sua vocazione nel giornalismo sportivo. Quando fu assunto a “Tuttosport”, il suo percorso si specializzò sempre di più, trasformandosi in un esempio perfetto per il me bambino. Mio padre è stato il mio traghettatore in quel mondo che mi affascinava. Mi portava con sé agli eventi: partite di calcio, incontri di pugilato, partite di rugby. Io non ero solo uno spettatore, osservavo con attenzione ciò che mio padre mi mostrava, come si ascolta, come si racconta. Mi spiegava come si fanno le interviste, come si cattura l’essenza di un momento attraverso le parole.
A ogni incontro sentivo di assorbire qualcosa. Non era solo passione, era un’educazione alla bellezza di un mestiere che avrei fatto mio. Mio padre percepiva il mio entusiasmo e lo alimentava, non come un maestro severo, ma come qualcuno che sa di avere tra le mani una scintilla e vuole vederla crescere. Così, passo dopo passo, il mio desiderio di raccontare il mondo dello sport divenne qualcosa di più di un sogno: iniziò ad essere il mio mestiere.
Chi è stato il suo maestro?
Nel mio percorso professionale ho avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie, più grandi di me, che mi hanno trasmesso insegnamenti preziosi, modellando la persona e il professionista che sono oggi. Aldo Biscardi è stato il primo a darmi un’opportunità in Rai, aprendo le porte a un mondo che per me era ancora tutto da scoprire. Gianfranco De Laurentiis, con il suo rigore e la sua competenza, mi ha insegnato a guardare al giornalismo sportivo con serietà e rispetto. Giampiero Galeazzi, invece, è stato un esempio unico per il modo in cui sapeva creare empatia con gli sportivi, trasformando ogni intervista in un dialogo autentico e sincero. E poi Sandro Petrucci, che con la sua rettitudine mi ha mostrato quanto sia importante l’integrità per chi fa questo lavoro. Ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa di speciale, un tassello che porto sempre con me e che ha contribuito a costruire il mio modo di essere e lavorare.
Quale è il segreto del suo personal branding?
La mia qualità principale, quando si parla di personal branding, penso sia la curiosità che mi ha permesso di sperimentare molti aspetti professionali pur rimanendo fedele a me stesso. Sono curioso di tutto ciò che posso vedere e raccontare, sempre inquieto. Il mio lato artistico mi condiziona profondamente: non riesco a fare sempre la stessa cosa. Per questo, mi butto in esperienze diverse come il teatro, la batteria, o qualsiasi cosa possa stimolarmi e aprire nuovi orizzonti. L’orizzonte, per me, è infinito. Non seguo schemi fissi, né percorsi predefiniti. Se il mio personal branding ha avuto successo, credo sia perché le persone riconoscono che mi metto in gioco, che provo a fare cose che altri eviterebbero. Sono passato dal raccontare con serietà il Mondiale 2006 a realizzare un docufilm sulla scalata al K2, mostrando lati diversi di me. Chi mi segue sa che non ho filtri, e forse è proprio questo a rendermi credibile.
Tratto distintivo del cronista?
Nel mio lavoro dobbiamo essere capaci di far tutto, di alternare il racconto al silenzio, di seguire l’alto e il basso… ne so qualcosa io che sono abbastanza umorale e capisco cosa significhi essere in alto e poi in basso! Non ho uno studio formale alle spalle, credo che il mio tratto distintivo sia un talento naturale, una predisposizione, ma so bene che non basta. Serve un vocabolario adeguato, la capacità di parlare un buon italiano. Penso che il calcio, come tutto lo sport, sia un gioco, un momento di svago e leggerezza. Soprattutto in tempi come questi, con guerre, pandemie e tensioni globali, lo sport deve rimanere uno spazio di respiro, un’occasione per staccare. La gente sa che non sentirà mai da me banalità o sciocchezze, e mi prendo la piena responsabilità di ciò che dico. Potrei essere uno spettatore tra gli altri, uno che guarda insieme a chi mi segue. La telecamera, per me, non è una barriera, ma una porta d’accesso. È attraverso di essa che cerco di creare uno scambio autentico, diretto, tra chi parla e chi ascolta. E in quello scambio, io mi metto in gioco.
Tra le tante esperienze fatte, qual è stata la più intensa?
L’esperienza del K2 è arrivata in un momento cruciale della mia vita, un periodo in cui mi interrogavo sul mio futuro professionale: tornare allo sport o intraprendere altre strade. Fu allora che mi venne chiesto se conoscessi qualcuno adatto a una spedizione sul K2. E alla fine, fui io stesso a partire. La RAI accettò di realizzare un documentario su questa straordinaria avventura: raccontare la storia di un uomo di 40 anni che affronta il trekking fino al campo base del K2, un viaggio di almeno due settimane attraverso altitudini che superano i 5mila metri. Il progetto non era solo una sfida fisica, ma anche emotiva e professionale. Il campo base diventò la mia casa per 40 giorni, vissuti senza elicotteri né scorciatoie, ma solo con la forza delle mie gambe e della mia determinazione. Era un viaggio per superare i miei limiti, un percorso in cui osservare da vicino atleti straordinari che mettono la vita in gioco per raggiungere la vetta. Non tutti, purtroppo, ce l’hanno fatta. E questo ha reso l’esperienza ancora più intensa, più reale. Il documentario, diviso in due puntate, non era solo il racconto della mia fatica, ma voleva essere un viaggio formativo per chi guardava. Una storia capace di ispirare e dimostrare come, con impegno e volontà, si possano raggiungere traguardi che sembrano impossibili. Era anche un omaggio a quegli alpinisti, veri supereroi, che sfidano la natura e i propri limiti per amore della montagna. Quest’esperienza rimane la più formativa della mia vita, sia dal punto di vista umano che professionale. Guardando indietro, è uno di quei momenti che segnano un prima e un dopo, che insegnano quanto sia importante sfidare sé stessi e scoprire nuove dimensioni, fisiche e interiori.
Quale messaggio intende lanciare alle nuove generazioni?
Non fermatevi ai 30 secondi di un video su TikTok. Non accontentatevi della superficialità, di un titolo letto di fretta. La vita non si consuma così, non si esaurisce in un istante. Prendetevi il tempo per approfondire, per ascoltare davvero. Non crediate che qualche minuto per leggere qualcosa possa bastare per capire ciò che è importante. L’attenzione deve andare sul dialogo. Un dialogo si fa in due: ascoltare, comprendere, dare spazio alle parole dell’altro. Fermatevi, respirate! Ci sono attimi che meritano di essere vissuti fino in fondo. Guardate ciò che avete intorno, e non solo con gli occhi. Godete della compagnia di chi vi sta accanto. Non abbiate paura dei silenzi. Non c’è vergogna nel fermarsi e ascoltare il suono del vostro respiro, il rumore dei vostri passi. È lì che si nasconde la verità, in quel tempo sospeso, in quel momento che non ha fretta, c’è la possibilità di scoprire chi siete davvero e cosa conta veramente.
La critica più difficile?
Non ricordo una critica in particolare che mi abbia ferito più delle altre, ma detesto quelle critiche strumentali, quelle costruite ad arte per screditare qualcuno o il contesto in cui opera. Sono critiche vuote, prive di onestà, e quelle pesano sempre. Forse, però, è anche grazie alla mia spiccata autocritica che riesco a farvi fronte.
Il complimento più bello?
Quando qualcuno si ricorda di me per momenti in cui sono stato meno sotto i riflettori, per progetti che non hanno avuto la stessa risonanza mediatica delle cose più note. Come il documentario sul K2, un lavoro a cui tenevo tantissimo, dove c’era più Marco come uomo che Marco Mazzocchi come personaggio pubblico. Questi riconoscimenti mi fanno capire che, in quei momenti, sono riuscito a toccare corde più intime e profonde. Essere riconosciuto per il grande evento è semplice, quasi scontato. Ma quando qualcuno si ferma e mi dice “sei uno dei nostri”, o mi offre un caffè con quella naturalezza che riserva agli amici di sempre, allora capisco di essere riuscito a costruire un rapporto autentico con il mio pubblico, e questo, per me, vale più di mille complimenti.
Come gestisce l’equilibrio tra vita pubblica e privata?
Ci sono stati periodi, soprattutto tra il 2003 e il 2006, dopo la mia partecipazione a “L’Isola dei Famosi”, in cui mi riconoscevano spesso per strada. Devo dire che non mi ha mai dato fastidio, anzi, in parte mi piaceva. Tuttavia, mi ha reso più consapevole, più attento al mio comportamento, perché fa parte del conto da pagare quando si sceglie questo lavoro. Certo, mi prendo anche il lato negativo, che alla fine è minimo: qualche commento spiacevole, qualcuno che ti ferma per dirti che «non capisci niente». Fa parte del gioco. Essere sé stessi in pubblico è sempre un po’ più complicato quando si è persone note, perché il pubblico tende a vedere in te solo il personaggio televisivo. C’è un’aspettativa continua, e devi convivere con l’idea che per loro sei quello che appari sullo schermo. Ho visto persone raggiungere la fama con poco sforzo e poi perderla altrettanto velocemente. Quando succede, il contraccolpo psicologico è devastante. La verità è che pochi sono davvero preparati al successo. La fama può essere un grande privilegio, ma richiede equilibrio e, soprattutto, la capacità di accettare i suoi lati meno brillanti.
Come utilizza i social media?
Ho aperto Facebook quasi per caso, senza sapere bene cosa aspettarmi. Al terzo post, mi sono trovato sommerso da risposte assurde, commenti fuori luogo che mi hanno fatto capire quanto fosse complesso il mondo dietro a quello schermo. Ho capito subito che non era il mio spazio. Twitter, invece, per un periodo mi ha divertito: era rapido, pungente, un luogo dove potevi giocare con le parole. Ma col tempo è cambiato, ha perso profondità, e così anche io ho perso interesse. Instagram è un’altra storia. Lì trovo leggerezza, un modo per raccontare frammenti di vita, per mostrare qualcosa di bello, per connettermi con un pubblico senza pretesa di fare informazione. Non dimentico mai, però, chi sono e cosa faccio: il mio lavoro è il giornalismo, la televisione. I social sono un’estensione, non il centro. Non li uso per fare notizia, ma per condividere qualcosa di autentico. Non seguo strategie, non cerco consensi a tutti i costi. Forse, è proprio questa spontaneità che mi permette di sentirmi ancora me stesso.