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Marcello Cesena: «Il lavoro dell’attore è un po’ come un laboratorio alchemico»

di Irene Cocco
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L’obiettivo nel personal branding di Marcello Cesena, comico italiano conosciuto al grande pubblico come Jean Claude, è semplice: restare fedele a se stesso, «senza trasformarsi in un cartellone ambulante».

 

Marcello Cesena è un attore, regista e comico italiano classe 1956, che ha saputo costruire una carriera fondata sulla reinvenzione continua. È diventato celebre in Italia per il personaggio di Jean Claude in “Sensualità a Corte”, sketch nato nel 2005 per i programmi televisivi satirici “Mai dire domenica” e proseguito con “Mai dire Lunedì/Martedì/Grande Fratello Show” di Italia 1, nei quali è apparso per cinque anni. Poi, dall’epoca della televisione generalista all’era digitale, ha saputo navigare il cambiamento mantenendo intatti i suoi tratti unici. Il filo conduttore del suo percorso è la capacità di scolpire e preservare un’identità distintiva nel tempo, un tratto imprescindibile in un’epoca in cui la visibilità digitale è determinante. In questa intervista racconta il suo viaggio, le sfide superate e la sua visione sull’evoluzione del mondo digitale.

Perché la comicità?

All’inizio mi piaceva immaginarmi come un attore “serio”, di quelli capaci di far piangere con uno sguardo. Mi vedevo protagonista di grandi epopee emotive, capace di conquistare il pubblico con un’interpretazione intensa e struggente. Ma presto ho capito che il destino aveva in mente per me un percorso diverso. La mia voce, il mio fisico, il mio stesso modo di pensare sembravano remare contro quella visione idealizzata. Era come se ogni elemento di me stesso mi spingesse verso un’altra strada: quella della risata. Ho imparato ad abbracciare questa inclinazione, scoprendo nel far ridere un’arte altrettanto nobile, capace di regalare emozioni autentiche e profonde. Oggi, guardandomi indietro, non posso che sorridere. Non rimpiango affatto il Marlon Brando che, forse, avrei potuto essere. Al contrario, sono grato al percorso che mi ha portato a scoprire la mia vera voce, quella che attraverso la leggerezza e l’ironia parla direttamente al cuore delle persone.

Com’è stato il suo cammino dalla TV al personaggio social?

Ho iniziato a fare TV in quel momento epico in cui apparvero i VHS. Improvvisamente, la televisione perse il suo potere di scandire i ritmi della giornata: non era più lei a decidere quando potevi vedere il tuo programma preferito. No, da quel momento ognuno registrava quello che voleva e se lo gustava quando gli pareva, magari alle tre del mattino con un toast bruciacchiato in mano. Poi è arrivato Internet, e la TV ha capito di avere un rivale impossibile da battere: una sorta di divano universale dove ognuno poteva farsi la propria playlist su misura, tra gattini e documentari sui vulcani. 

Quando ho iniziato a creare i primi Jean Claude, YouTube era appena nato e sembrava il Far West del web: sketch, video assurdi e una libertà creativa che era una manna dal cielo. Ho subito capito che il futuro era lì, che saltare il passaggio televisivo e buttarsi direttamente online era come infilarsi in una macchina del tempo per atterrare nel mondo nuovo. 

Poi sono arrivati i social: un’arma a doppio taglio, capace di regalarti la ribalta mondiale o di farti passare per l’idiota del villaggio globale. Li guardo con un misto di sospetto e ammirazione. Però, inutile negarlo, oggi sono fondamentali, anche se ogni tanto mi ritrovo a litigare con gli algoritmi.

Quale ritiene essere il suo tratto distintivo?

Faccio un sacco di cose diverse, e ogni tanto mi chiedo io stesso come sia possibile. Da regista, ho messo mano a centinaia di spot pubblicitari, uno più creativo (e stressante) dell’altro, senza contare il lavoro in televisione. Poi, come attore, mi sono divertito a interpretare personaggi che oscillano tra l’assurdo e il surreale. E nel 2024 ho deciso di scrivere il mio primo romanzo, “Un Luogo Sicuro”. È stata una sfida pazzesca, ma anche una delle esperienze più appaganti della mia vita. La verità è che mi innamoro facilmente di tutto ciò che ruota attorno al mio mestiere: la regia, la scrittura, la recitazione. Ogni angolo di questo mondo mi affascina, e io non riesco a dire di no a niente. È un po’ come un buffet all-you-can-eat: vuoi assaggiare tutto! Certo, il rovescio della medaglia è che a volte rischio di sembrare discontinuo, come quella playlist che passa da un pezzo rock a un valzer senza capire perché ma ha un suo senso. Ma forse è proprio questo il mio tratto distintivo. In fondo, se c’è una cosa che mi mantiene vivo è la voglia di scoprire sempre nuove strade e di vedere fino a dove posso spingermi. E sì, ogni tanto penso che dovrei rallentare. Ma poi vedo un progetto nuovo e mi ci butto a capofitto. Perché, diciamocelo, la monotonia non fa per me.

Qual è stata la sfida più importante nel lavoro e quale nella vita?

Il mio è un bel lavoro, anzi, un lavoro bellissimo. Ogni giorno mi sveglio con la possibilità di creare qualcosa di nuovo, che sia un personaggio strampalato, uno spot pubblicitario che ti rimane in testa per giorni, o una storia capace di far ridere e riflettere. Ma ecco il punto: non mi accontento mai. Non so se lo definirei una ‘sfida’, ma la mia missione è sempre stata una sola: alzare l’asticella, complicare le cose. Amo rendermi la vita difficile, lo confesso. Se una cosa sembra semplice e lineare, mi viene l’istinto di aggiungere qualche curva pericolosa. Questo vale soprattutto sul piano produttivo: produco in prima persona tutto quello che si vede in TV, il che significa notti insonni, budget che sembrano puzzle da 10mila pezzi. Per me il lavoro è un po’ come un laboratorio alchemico: mescolo idee, provo combinazioni strane, aggiungo un pizzico di follia e vedo cosa succede. Non sempre il risultato è oro, ma quando lo è, non c’è soddisfazione più grande. E in tutto questo, il mio obiettivo non cambia mai: trovare nuovi modi di raccontare storie. Perché, in fondo, è lì che si nasconde la magia. E se per scovarla devo trasformare ogni progetto in una piccola odissea creativa, beh, che odissea sia!

Qual è stata la gratificazione migliore?

La risposta più ovvia, e meno poetica, forse, è che nulla mi gratifica di più dell’affetto del pubblico per i miei personaggi. Lo so, sembra una di quelle frasi da intervista alla fine di un festival, con un mazzo di fiori in mano e un sorriso stiracchiato, ma è davvero così. Non c’è nulla di più potente di vedere una sala piena di persone che ridono, si emozionano o, meglio ancora, citano le battute dei miei sketch. È come se i miei personaggi avessero preso vita autonoma, diventando compagni di viaggio per chi li guarda. E la cosa bella? A volte mi fermano per strada e mi raccontano come una gag o un dialogo li abbia tirati su in un momento difficile. Allora capisco che, oltre a far ridere, ho fatto nel mio piccolo, qualcosa di speciale. 

Che uso fa dei social media?

Ah, i social media: quella giungla digitale dove tra un video di gattini e un tutorial di cucina ti giochi la carriera. Per me, sono diventati uno strumento fondamentale, una sorta di palcoscenico personale dove posso creare i miei contenuti e condividerli senza dover passare da filtri televisivi o riunioni infinite con produttori. Sono un po’ come un jukebox creativo: scelgo io cosa far vedere, quando e come. Tratto quasi esclusivamente dei miei personaggi, perché, diciamocelo, della mia vita privata a chi interessa? Ci sono pochi scorci di quotidianità: un cane buffo, un “dietro le quinte” improvvisato e poco altro. Niente foto di piatti stellati o selfie in palestra, non faccio la vetrina di un negozio. Cerco di mantenere un equilibrio, un po’ come camminare su una fune sopra un mare di influencer sponsorizzati. È un mondo che osservo con un misto di curiosità e diffidenza, come un turista in un mercato esotico: affascinante, ma occhio a dove metti i piedi, o ti ritrovi a vendere un dentifricio in diretta streaming.

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Ha una strategia di personal branding?

Strategia è una parola grossa, quasi da guerra fredda, e io non ho mai avuto il dono della pianificazione militare. Detto questo, ho un approccio che potremmo definire “minimalismo con criterio”. Ci troverete i backstage di “Sensualità a Corte”, qualche gag improvvisata, magari un “prossimamente” per stuzzicare la curiosità. Cerco di tenere tutto leggero e focalizzato sul mio lavoro, resistendo eroicamente alle sirene della pubblicità. Le offerte arrivano: creme per il viso, snack miracolosi, persino materassi. Ma immaginatevi Jean Claude che sponsorizza una padella antiaderente. Distruggerebbe il mito, no? Alla fine, il mio obiettivo è semplice: restare fedele a quello che faccio, senza trasformarmi in un cartellone ambulante.

Qual è il messaggio che desidera lanciare alle nuove generazioni?

Più che un messaggio, un consiglio in forma di motto. E il mio motto è: «Provateci. Vale sempre la pena». Sì, suona come una frase motivazionale da maglietta, ma è vero. Provate a sbagliare, a fallire, a ricominciare. Non vi dico che sarà facile, lo è mai?  Ma il punto è che ogni tentativo, anche il più disastroso, vi porta un passo più vicini a scoprire chi siete davvero. Io ho fatto tonnellate di errori, alcuni talmente grossi da sembrare sketch comici, eppure ogni scivolone mi ha insegnato qualcosa. Quindi, avanti: buttatevi, inciampate, ridete di voi stessi e poi rialzatevi. Alla fine, non c’è niente di più bello che guardarsi indietro e pensare: «Sì, ne è valsa la pena».

 

Irene Cocco

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