Lavorando a maglia in ogni parte d’Italia, il designer campano continua a fare personal branding con le sue “mani chiattulelle”. In un crochet tour che vede cambiare sempre scenografia alle sue spalle, a colpi di giri di maglia e di pura ironia.
Con il progetto di crowdfunding “The Common Thread”, Italo Marseglia ha trasformato la sua comunicazione di brand in una narrazione molto più personale e incentrata sul suo lavoro, unendo la sua community in un unico lungo filo comune.
Per avviare la produzione di una nuova collezione proprio nel momento in cui tutta Italia si fermava, ha chiesto ai suoi follower di inviargli filati inutilizzati, che lui avrebbe trasformato in splendidi capi tricot. Da qui ha origine la collezione “The Common Thread”, il cui successo prosegue anche oggi.
“The Common Thread” per te cosa rappresenta questo filo comune?
Per la prima volta con la nascita di “The Common Thread” ho conosciuto degli aspetti del sistema moda che non avrei mai sospettato. Avrà certamente influito anche il momento storico particolare, nel senso che il fatto che fossimo tutti in lockdown era sicuramente complice, però ho scoperto una solidarietà che prima non conoscevo. La solidarietà non è proprio un aspetto peculiare del sistema moda. Sono rimasto sorpreso da questa voglia di partecipare al progetto senza aspettarsi nulla in cambio. Ho lanciato la mia call to action dicendo: «Se avete dei filati che sono destinati a essere buttati, fatemelo sapere e io gli darò una nuova vita». Quale sarebbe stata questa nuova vita all’inizio non lo sapevo. Non ho mai offerto nulla in cambio.
Ho iniziato questo progetto semplicemente perché avevo più tempo a disposizione per lavorare all’uncinetto, come mia nonna aveva insegnato a me e a mia sorella. Eravamo due pesti, e lei ci aveva fatto realizzare delle presine e piccole cose, per avere dei momenti di tregua. Poi avevo messo da parte questa cosa, non c’era mai stata la possibilità di completare la coperta all’uncinetto della nonna. Per me quindi il lockdown è stato molto prezioso. Quando il lavoro a maglia, che avevo iniziato come hobby ha preso piede, i miei amici, entusiasti del risultato, hanno insistito per farlo diventare qualcosa. Mi sono chiesto: «Ci sarà qualcuno che come me ha una nonna che possiede filati inutilizzati, che giacciono da qualche parte…». Da lì ho inventato questa call to action che è diventato un progetto molto più grande di quanto pensassi. Ho ricevuto chili di lane che continuo a ricevere tutt’ora.
Mi racconti del posto più improbabile da cui ti sono arrivate le lane di “The Common Thread”?
Da tutta Italia, isole comprese, a volte arrivano da posti di cui non avevo mai sentito l’esistenza. L’appello è partito su Instagram e le lane sono arrivate via posta o corriere. La cosa che mi dispiace di più è che molte volte non c’erano bigliettini con nominativi o altri dettagli, per me è stato difficile ringraziarli e conoscere le loro storie. Sono incredibili le storie delle lane che ho ricevuto, assurde e meravigliose allo stesso tempo. Ad esempio un ragazzo autistico mi ha mandato dei gomitoli perché gli piace guardare i video dove lavoro a crochet. Diverse persone dall’Emilia Romagna mi hanno mandato molto materiale derivante da maglifici chiusi proprio a causa della pandemia. Io ho preso qualsiasi cosa: lane, lurex, filati, mohair, cachemire, bouclé, di tutto. Anche lo scorso Natale ci sono stati amici e conoscenti che mi hanno regalato lane, continuo a riceverne tantissime.
Nelle tue attività di promozione e comunicazione sei affiancato da un ufficio stampa che ti segue?
Fino alla collezione Zoomantic presentata a gennaio 2020 c’è stato un ufficio stampa, successivamente sono cambiate molte cose e oggi il mio ufficio stampa sono io che comunico con la mia faccia su Instagram. Sempre nel 2020 ho effettuato con “The Common Thread” un totale riposizionamento del brand, una narrazione nuova basata sulla mia storia. Mi sono reso conto che sarebbe stato inutile continuare ad offrire una visione del brand Italo Marseglia, separata dalla mia personalità. Piuttosto per me era diventato molto più importante comunicare me stesso come creativo, attraverso la mia visione del marchio, quindi era giusto metterci la faccia e raccontare il mio punto di vista personale.
Il tuo riposizionamento ha compreso quindi una maggiore personalizzazione?
Assolutamente sì, questo per quanto riguarda tutte le strategie. La strategia che seguo viene da un detto napoletano: “L’acqua è poca e la papera non galleggia”, questo è l’imperativo che ci guida ogni giorni, ogni modo facciamo in modo che ci siano delle opportunità.
Nei video del tuo “crochet tour” giri tutta Italia lavorando a maglia e metti in primo piano le tue mani, che ironicamente chiami “mani chiattulelle”. Possiamo dire che tu fai personal branding con le mani?
Sì, ci metto le mie mani, perché per me la manualità semplice è stata una valorizzazione e una scoperta. Le mani sono diventate protagoniste insieme all’ironia, una componente del mio carattere che nella comunicazione precedente non era emersa. Prima la mia comunicazione di brand era molto più impersonale, ora invece voglio sfruttare l’arma dell’ironia, strumento di grande forza e dimostrazione di intelligenza. Per me era così importate che non potevo trascurarla, così le mie mani sono diventate #manichiattulelle e abbiamo giocato con una serie di hashtag particolari tipo #madeinitalo, puntando aa una brandizzazione molto ironica.
Dove arriverà “The Common Thread”, dove ti porterà questo filo?
Non lo so, non voglio mettere limite. È un progetto che ha avuto un inizio, non ha una fine e non ha un obiettivo ben specifico: mi piace che gli obiettivi siano in divenire, esattamente come il progetto. Quando ho iniziato a lavorare a crochet non avevo altro obiettivo se non quello di rivalutare il mio tempo in maniera creativa. Poi è nata la collezione e sono fioccate le richieste da parte dei privati, e in seguito dei negozi. Ora mi piacerebbe riuscire a formare dei giovani creativi che abbiano il desiderio di imparare quest’arte.
La crochet mania è un movimento consolidato che riesce a mettere insieme le persone accomunate da una passione condivisa. Forse con i social le relazioni reali si stanno un po’ perdendo, anche se nel tuo caso è stata proprio quella rete a fare la differenza…
Esatto. Tutte le attuali richieste di poter acquisire i miei capi da parte dei negozi mi arrivano tramite il canale Instagram. Prima della pandemia avevamo uno showroom importante su Milano, oggi non più. Prima ci chiedevano sempre di “aggiustare il tiro” di qualche pezzo, magari il colore non andava bene, oppure il modello, il taglio o la lunghezza non erano giuste. Da quando abbiamo inaugurato le nuove collezioni è creatività allo stato puro. Ci prendiamo i nostri tempi per la produzione, lavorare a maglia richiede il suo tempo, e consegniamo un capo quando è pronto. Il colore lo scelgo io perché i filati sono quelli che ho ricevuto, sono io a decidere come abbinarli sulla base di quello che ho a disposizione. Se vogliamo ora l’acquirente ha meno possibilità di scelta… eppure dicono tutti di “sì” e accettano ogni mia indicazione.
Oltre al tuo personal storytelling, ho visto che ti ha molto aiutato la leva dell’influencer marketing. Confermi?
Non mi aspettavo che queste nuove collezioni prendessero così tanto piede anche da parte degli influencer, sono state chiesti maglioni da parte di Paolo Stella, e Giovanni Arena, il tiktoker e travel creator di 26 anni che è famoso perché gira il mondo, e da Stephanie Glitter, classe ’94, make up artist e influencer con la passione della moda. La cosa più bella sai qual è? Che tutto questo è accaduto in maniera spontanea, si è trattato di una crescita completamente organica.