Una storia familiare difficile, un percorso di studi faticoso contro tutto e tutti. Poi dall’incontro con la criminologa Roberta Bruzzone, Isabel Martina ha capito l’importanza di differenziarsi e iniziare a metterci la faccia: «La maggior parte dei miei colleghi resta volutamente nell’ombra, io preferisco la luce. A un certo punto mi sono stufata di sentirmi dire che in Italia il mio sogno non era una professione e di smetterla di guardare CSI».
Bella, solare e con grinta da vendere. Isabel Martina, classe 1985, quello che ha oggi se lo è guadagnato con sudore, sacrificio e tanto coraggio. Forse lo stesso che ha avuto la sua madre biologica 35 anni fa, quando percorse un fiume per sette giorni nella foresta fra Brasile e Venezuela, con la speranza di regalare alla sua bambina un futuro migliore.
«Devo anche al suo gesto quello che sono oggi – attacca Isabel –, ai miei genitori che mi hanno cresciuta e a tutte le persone che mi hanno aiutata e incoraggiata. E, pensandoci bene, anche a chi ha provato a ostacolarmi e scoraggiarmi. Ma sono arrivata alla conclusione che la vita ci offre continuamente l’opportunità di essere felici, sta a noi coglierla».
Isabel Martina viene adottata a 14 mesi da una famiglia di Lecce, dove getta le basi per il suo futuro. Laurea in scienze politiche e relazioni internazionali all’Università del Salento, con specializzazione nel 2011 in “Human Right”. Combinazione vuole che quell’anno il Salento venisse scosso dall’omicidio di Avetrana, quello della piccola Sarah Scazzi. «Così una sera vedo in tv, mi pare a Porta a Porta, la criminologa Roberta Bruzzone. Per me è stata un’illuminazione: quella era la professionista che sarei voluta diventare».
Quella coincidenza convince Isabel che il suo sogno non può rimanere chiuso in un cassetto: decide di diventare una criminologa. Così si iscrive al corso di Laurea Magistrale in Scienze criminologiche per l’investigazione e la sicurezza dell’Università di Bologna.
Insomma, tutto liscio come l’olio…
Niente affatto. Dopo tutta questa fatica a Forlì mi sono ritrovata con tantissime persone che scoraggiavano le prospettive di questa professione, docenti compresi, i quali all’infuori della carriera accademica non vedevano il criminologo come una vera attività. Ho deciso di non perdermi d’animo e di specializzarmi dapprima in “sopralluogo tecnico giudiziario sulla scena del crimine, dattiloscopia e balistica forense”, presso il laboratorio di criminalistica diretto dal professor Francesco Donato a Bologna e poi entrare all’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi dove ho frequentato il corso di Alta Formazione in psicologia investigativa, psicologia giuridica, psicopatologia e psicodiagnostica forense conseguendo il titolo di criminologa investigativa “esperta in psicologia investigativa, psicologia forense e psicodiagnostica applicata in ambito civile e penale”.
Un lungo e complesso percorso di studi…
Non è stato facile. Le condizioni economiche della mia famiglia, che già era alle prese con i gravi problemi di salute di mia madre, sono stati ostacoli enormi da superare. Non avrei mai voluto pesare su di loro, ma sapevo che il mio destino fosse segnato. Il master a Roma – proprio con la dottoressa Bruzzone – in realtà non potevo permettermelo, così ho fatto la spola tra Roma e Lecce, facendo anche il facchino in un albergo cinque stelle di Gallipoli. Ho preso pullman, li ho aspettati di notte sulle panchine della Stazione Tiburtina. Ma la cosa più importante non è stata quello che ho fatto in quel periodo, ma ciò che non ho fatto: e cioè ascoltare chi mi diceva… lascia stare, non ce la farai mai.
E invece eccoti qua…
Già, alla fine ce l’ho fatta: tra più di cento studenti di quei master, sono stata una delle tre persone selezionate e tutt’ora collaboro nel team della Bruzzone. Ed è stato grazie alla mia tesi e alla pista individuata durante la stesura di quest’ultima che si è potuto riaprire ed è tutt’ora in piedi uno dei cold case più significativi d’Italia: la scomparsa di Roberta Martucci, una giovane ragazza salentina.
Quali altri casi hai trattato?
Casi di cronaca nazionale e tanti altri come consulente diretta delle famiglie. Oltre al caso Martucci mi piace ricordare quelli nei quali sono consulente di parte: le morti equivoche di Ivan Ciullo e Giovanna Tafuri Lupinacci; l’omicidio dell’imprenditore Giovanni Mauro; la scomparsa di Mauro Romano e Brenda Maria Soares Aparecida e il caso di Andrea Cavalera, detenuto morto nel carcere di Rossano Calabro.
Quanto è importante per te la comunicazione?
Tanto. Sono responsabile del blog Instagram “Conoscere”, diretto da Michele Belfiore insieme a Morena Zapparoli, che ha lanciato diverse esclusive sul caso di Denise Pipitone. Ho collaborato nell’approfondimento dei casi di cronaca con la Gazzetta del Mezzogiorno e ho scritto la prima recensione sul giornale di Siena “Il Cittadino” del libro di Davide Vecchi sulla morte misteriosa di David Rossi. Anche i social sono fondamentali per la mia crescita professionale, soprattutto in ottica di interazione con le famiglie sulle vicende di cui mi sto occupando. Nel mio caso la visibilità non è un modo di apparire, ma di essere più vicina alle persone.
So che tieni tanto anche alla formazione e il dialogo con i giovani…
Li ritengo fondamentali. Ho un’accademia di formazione in ambito criminalistico e criminologico che in collaborazione con l’agenzia Vox Investigazioni ha organizzato il primo criminology and investigation Summer Camp nazionale. Ho scritto un manuale universitario inerente al Covid e ai suoi effetti sui fenomeni del bullismo e cyberbullismo. Se ho in mente un’opera letteraria? Mi piacerebbe scrivere un libro su un caso che seguo da diversi anni e lo farò non appena mi sarà possibile. Per adesso sto curando alcune indagini ed è più importante che la giustizia faccia il suo corso.
E come eventi?
Sicuramente ho in mente un nuovo Summer Camp con ospiti illustri del settore criminologia ed investigazione. Mi piacerebbe organizzare una premiazione in area Mediterraneo per criminologi consulenti e dedicato alle scienze forensi.