Intervista a Roberto Ascione, CEO di Healthware Group. Pioniere del “digital health”, da 25 anni sviluppa tecnologie e strumenti informatici al servizio della salute. «È importante circondarsi di persone di valore e da valorizzare».
L’azienda è nata a Napoli, poi si è trasferita a Salerno. In Italia le altre sedi sono a Milano, Roma, Rende. Ha uffici anche in altre città europee (Colonia, Barcellona, Helsinki, Londra) e a New York. Di fatto, in tempi di smart working, la posizione geografica non è mai sembrata un problema.
Lei parlava di salute digitale già parecchi anni fa, mentre l’attenzione verso la digital health è cresciuta solo di recente. Da dove nasce questa idea?
Ho studiato da medico, ma ero anche molto appassionato di informatica: volevo coltivare entrambe le passioni. All’epoca però era ancora tutto analogico e mi è venuta l’idea, dimostratasi valida negli anni, di metterle insieme. Se fossi diventato un medico bravo, avrei salvato delle vite; ma se avessi creato un software per aiutare i medici, probabilmente avrei potuto aiutare molte più persone. Avendo frequentato i reparti degli ospedali, ho capito che avrei potuto cercare di risolvere alcuni problemi e migliorare i processi attraverso soluzioni tecnologiche.
Nel 1997 è nata Healthware, dalla fusione delle parole health (salute) e ware (di software). Allora erano nati i primi siti web che parlavano di medicina. Oggi con la realtà virtuale c’è la possibilità di curare una patologia ma l’idea di base resta la stessa: usare dei pezzi di tecnologia per risolvere e migliorare le problematiche di chi, medico, ogni giorno deve affrontare la sfida di assicurare la salute ai propri pazienti.
Quanto conta per le sue aziende la credibilità e il suo brand personale?
Penso parecchio perché facciamo un lavoro in un settore che necessita di grande credibilità e responsabilità. Anche una semplice app, con contenuti di salute non validati correttamente, rischia di creare gran confusione e problemi. Realizzare progetti, siti e portali, app in un’azienda guidata da una persona considerata un esperto in questo settore, mi ha anche aiutato a creare un team di livello internazionale, a guadagnare quella fiducia che ci consente di proporre e realizzare progetti e soluzioni innovative.
È al suo secondo libro, questa volta in lingua inglese. Uno strumento di rafforzamento della sua affidabilità e competenza o di divulgazione?
Il libro non l’ho scritto per una strategia di posizionamento. Dopo però mi sono reso conto che avrebbe anche potuto avere questo risvolto. La motivazione della stesura del libro nasceva da un bisogno: quello di definire alcuni argomenti, raggiungere e aiutare medici, istituzioni e persone comuni a comprendere tutte le opportunità offerte dal digitale per migliorare la gestione del paziente e della cura delle patologie. È nato quindi con un intento divulgativo, ma ha avuto effetto sul mio personal branding.
Ha una strategia ben definita per sviluppare il brand personale?
Ho sempre ritenuto importante, nella posizione di CEO di Healthware Group, che siano i progetti, le iniziative e i risultati a parlare di me e soprattutto che le persone siano soddisfatte. Sono contento quando i miei collaboratori producono contenuti di livello: il mio ruolo è di facilitare la costruzione di una squadra di spessore professionale, con la quale creare progetti apprezzati dal mercato. Come è stato con Paginemediche, una nostra start up che, all’inizio della pandemia, è stata la prima al mondo a mettere un chatbot e un servizio di video-visite a disposizione di medici e pazienti. Le email di ringraziamento dei pazienti sono state una grande soddisfazione. Se l’azienda viene identificata con una sola persona, rischia di non riuscire a scalare oltre una certa dimensione. È veramente importante circondarsi di persone di valore e da valorizzare.
Di fatto però usa gli strumenti del personal branding, posta spesso contenuti su LinkedIn e utilizza gli strumenti digitali con padronanza per far “sentire” la propria voce. Quale è il più importante per il business?
Sicuramente la conferenza Frontiers Health, di cui sono Chairman, che si è accreditata come un appuntamento fisso per riunire i pionieri del settore e i player internazionali più importanti. Continuando anche sui social nei mesi successivi, aiuta a definire la sanità digitale e a sviluppare una comunità del settore. Anche il libro stampato, prima “Il futuro della salute” e ora la versione in lingua inglese “The future of health”, è stato molto importante. Nonostante mi occupi di digitale, un mezzo cartaceo ha contribuito a cristallizzare concetti fondamentali ed è di aiuto alla fase decisionale delle istituzioni.
Con le aziende e le iniziative ha idealmente portato una città di provincia come Salerno al centro del mondo in un settore molto innovativo. Come c’è riuscito?
Siamo nati a Napoli, poi ci siamo trasferiti a Salerno. Abbiamo uffici a Milano, Roma, Rende e in altre città in Europa e negli Stati Uniti. La posizione geografica non mi è mai sembrata un problema, probabilmente perché concetti come South working o smart working fanno parte di noi da sempre. Diversi anni fa abbiamo fornito ai nostri collaboratori computer portatili e cloud, usavamo già Zoom per le riunioni tra le varie sedi e i nostri collaboratori internazionali. A Salerno, a Palazzo Innovazione, abbiamo creato un buon esempio di spazio di co-working: insomma abbiamo avuto sempre una dimensione smart.
Che consiglio darebbe a chi vuol crescere come brand personale?
Direi che sono importanti due aspetti. Il primo è quello di condividere competenza, che è quello che faccio io. È molto importante perché credo che sia centrale il tema della qualità di quello che si dice. L’altro è a metà strada tra la responsabilità e l’eticità: quanto più si è noti, tanto più è vitale la responsabilità nell’utilizzo degli strumenti di comunicazione che si hanno a disposizione. Soprattutto nel mio settore, in un attimo un messaggio potrebbe avere conseguenze anche rischiose. Dunque bisogna fare molta attenzione per restare affidabili e credibili.