Erede di Luchino Visconti e nipote di Giovanni Gastel, Guido Taroni è un giovane talentuoso che ha saputo uscire dall’ombra per affermarsi come fotografo. Cresciuto a “estetica e progresso”, la sua fotografia è densa di significati che uniscono il bello con la storia.
Mi sarebbe molto piaciuto anche conoscere i miei bisnonni, per capire certe dinamiche di famiglia.
Sei bello, gentile, educato, colto, sei l’erede di diverse dinastie italiane, sei nipote di Giovanni Gastel e pronipote di Luchino Visconti, la tua immagine pubblica lascia trasparire gioia di vivere e leggerezza, come vivi tutta questa complessità?
Diciamo che da quando sono nato, ho avuto la fortuna di essere stato educato al bello e comunque di essere stato educato. Per me questo, resta un valore molto importante. Non mi riferisco solo di educazione morale che dovrebbe essere scontata, ma non è così. Parlo di un’educazione più ampia, verso certi valori, ai dettagli, cercare di restituire quello che si ha. Quando si parte con un vantaggio, dobbiamo essere sempre pronti a restituire. Io mi sono sempre sentito obbligato a rendermi indipendente dalla mia famiglia, proprio come obiettivo. Non mi sono mai fatto ammaliare da questo passato importante. Io sono io, nel 2022, voglio costruirmi con le mie forze il mio futuro. Certo sono conscio dell’importanza storica della mia famiglia, ma questa deve essere una molla per distinguermi e non per rimanere uguale a me stesso. Mia nonna diceva sempre: “Non bisogna vantarsi di quello che siamo, ma neanche vergognarsene”. La giusta misura è la normalità. Forse questa parte gioiosa inaspettata, viene più da mio padre, che è un personaggio molto particolare.
Avresti voluto nascere in qualche altra epoca e se sì, quale?
Io amo la tecnologia, quindi sono felice di vivere questi tempi, non tutto ma parecchie cose mi attraggono: per esempio internet ci da la possibilità di essere in contatto con chiunque ovunque, è una finestra sul mondo che ci portiamo tutti in tasca e forse molti di noi non ne sono neanche così consci. Io sono una persona che ama stare da solo, al tempo stesso mi piace la compagnia e la comunicazione. Poter utilizzare quotidianamente questa conquista straordinaria, avere in tasca uno strumento, che ci permette di annullare lo spazio e il tempo, condividere questa “sincronicità” quotidiana, trovo sia una grande conquista. Al tempo stesso mi sarebbe piaciuto vivere nei primi decenni del secolo breve. Proprio per l’intensità estetica del periodo, gli anni ’20 del ‘900, amo molto questa fase storica, sia per quanto riguarda l’architettura, così come il design e la società stessa. Diciamo che tutto il periodo storico che inizia con la “Belle Époque” e si conclude con la fine degli anni ’30, quando tutte le forme concertavano come linguaggio comune di un unico stile di bellezza. Mi piace molto! Se ci pensi tutto quello venuto dopo, sono rimandi allo stile di quegli anni. Mi sarebbe molto piaciuto anche conoscere i miei bisnonni, per capire certe dinamiche di famiglia. Colgo molto questo, quando devo fare delle fotografie negli spazi urbani, dalle luci, alle vetrine dei negozi, non c’è un ordine comune, tutto è fuori scala, urlato, pacchiano. Oggi siamo in un’epoca in cui il cattivo gusto prevale, su tutto.
Ti senti orfano della storia, come vivi questo presente?
Il momento che stiamo vivendo, è molto particolare, ci ha portato a riflettere sui nostri comportamenti e i nostri consumi, rallentando di conseguenza sia gli uni che gli altri. Ci ha riportato a considerare la quotidianità, con i suoi piccoli momenti a vivere in un paradigma migliore per la nostra anima. Riconsiderare la bellezza dei profumi di un giardino e quindi nella sofferenza di non potere uscire, riuscire a vivere con quello che abbiamo. Stare con quello che abbiamo è la vera sfida nel presente. Io ho vissuto nella tragedia, questo momento, come un grande reset generale. Cerco sempre di pensare positivo, come un passaggio da uno stato a un altro. Aspettando di poter tornare a vivere le nostre vite precedenti, avendo imparato tutti qualcosa da questa lezione.
Sei sempre alla ricerca di buone idee?
Assolutamente si! Così come di nuove idee e stimoli. Io amo il mio lavoro, mi piace molto cambiare soggetto e location, posti, team. Facendo moda sei in uno studio con tantissime persone, lavori in gruppo; per l’architettura sono da solo, viaggio di più e così vivo una sorta di travaso da un mondo all’altro: ogni cosa vale come suggestione per il prossimo lavoro che farò. Da ogni esperienza la mia mente seleziona e rimette insieme i pezzi, per creare nuove immagini. La cosa che mi manca di più, riallacciandomi alla domanda di prima, è proprio il non poter viaggiare: per me il viaggio è sempre nuovo ossigeno per il mio lavoro.
Senti un senso di responsabilità verso il patrimonio artistico italiano?
Il bello esistente come patrimonio collettivo, è un bello che istintivamente non solo cerco di proteggere, ma anche di riprodurre nel mio lavoro. Cerco di ridurre la distanza tra me e questa bellezza che ci circonda, puntando sempre verso una ricerca dialettica con la stessa, tramite la fotografia e la mia vita di tutti i giorni. La bellezza ci eleva, cerco sempre di essere all’altezza di tutto questo: è un dovere morale oltre che metafisico.
Come fotografo quale tipo di immagine insegui?
La fotografia in sé stessa, mi è sempre piaciuta come oggetto. Con un’immagine hai la possibilità di fermare un concetto, questo è quello che mi affascina della fotografia rispetto al video. L’istante fotografico è unico ed è diverso, sia da quello che lo precede, come anche da quello che lo segue. La fotografia si muove, può cambiare, evolvere: quindi mi ha sempre affascinato la scelta di quel singolo fotogramma, che resta unico, come in una danza, il ritmo varia e cambia la scansione di tempo. Dentro alla fotografia c’è sempre molto di noi, la fotografia ci appartiene. Come il frammento di un messaggio, che può cambiare, resta sempre la nostra identità al suo interno. Ogni fotografo ha la sua identità, quello è il vero messaggio nascosto. Io mi sono sempre buttato anche in cose di cui non avevo la minima idea di come si facessero, essendo partito dalla gavetta, ho imparato che si può sempre imparare. Ogni esperienza che ho vissuto, mi ha fatto acquisire in termini di sicurezza in nuovi linguaggi estetici e di indipendenza tecnica, così come nei rapporti umani. Quindi ci provo sempre: ultimamente ho fatto anche un’esperienza in tv, ho fatto pubblicità, alle volte faccio il modello.
Com’è stato lavorare in televisione per RaiDue?
È stato molto interessante, ci vuole una concentrazione altissima, registravamo due puntate al giorno: anche se non parli, devi sempre essere concentrato sul fatto che ti riprendono, quindi la postura, i gesti e l’espressione, devono sempre essere misurati e pensati, non puoi abbandonarti mai. Comunque è tutto l’insieme, la misura delle emozioni, la gestione delle luci, anche questo fa parte del mio lavoro, ma è visto in modo asimmetrico, sei dall’altra parte della macchina, di una macchina scenica e il tutto deve essere gestito senza sbagli. Alla fine è come far parte di un’orchestra, tu sei uno degli strumenti e devi lavorare in sincrono assieme a tutti gli altri.
Come hai iniziato a lavorare con la fotografia?
Ho iniziato a lavorare con la fotografa Ornella Sancassani, una fotografa d’interni, lei allora usava il banco ottico e la pellicola, con lei lavorava anche la figlia Francesca, che in quel periodo approcciava il digitale, sperimentando l’uso dei programmi di fotoritocco, sulle fotografie analogiche della madre. Quindi sono cresciuto in un ambiente in cui potevo contemporaneamente osservare entrambi i modi di lavorare e constatare le differenze tra il supporto fisico e quello immateriale della fotografia digitale. Dopo aver fatto questo periodo con loro, sono andato a fare l’assistente di mio zio Giovanni Gastel. Con lui ho proprio seguito e imparato, attraverso il passaggio tra l’analogico e il digitale. Mio zio aveva lavorato tutta la vita in analogico, ma i quel periodo, per una richiesta del mercato, i fotografi sono passati tutti dalla fotografia tradizionale, su pellicola, a quella in digitale. Lavorando quell’anno con lui, ho seguito tutto il suo percorso, molto interessante tra ricerca e sperimentazione. Anch’io avevo iniziato lavorando in pellicola, ma poi a meno che tu non faccia “fotografia d’arte”, proprio come rituale e come resa, non ha più senso lavorare in analogico, visto i tempi frenetici della produzione di oggi.
Come coincide la tua visione con la fotografia?
La mia visione estetica è una ricerca continua tra il mistero e la rivelazione, tra la perfezione del digitale e l’imperfezione materica della pellicola. Oscillo sempre nei miei lavori tra questi due poli. Il margine di errore prima con la pellicola era nullo, la perfezione, nell’imperfezione, la trovo affascinante. Il lavoro della camera oscura, i bagni, i tempi, era tutto un lavoro diverso, era un’arte. Il digitale è immediato, la pellicola richiede il lusso del tempo. A me piace cambiare, passo dalla moda agli interni, la fotografia vive nell’inquadratura. Non penso mai a un insieme di foto ad esempio per un editoriale. Io cerco sempre di rendere la singola foto bella, cerco sempre di interpretare quello che vedo, attraverso il mio modo di vedere una modella o un oggetto. La fotografia è educazione pratica alla visione, che si traduce in una fotografia. Ognuno di noi ha il proprio modo di vedere le cose, altrimenti si diventa la brutta copia di qualcun altro.
A livello di fotografia, quanto hanno influito Giovanni Gastel e Visconti nel tuo lavoro?
Sin da quando ho iniziato, il mio obiettivo è sempre stato quello di avere un mio stile, una mia visione. Quello che ho invece imparato da mio zio è proprio quello che c’è intorno, a partire dalla preparazione e alla costruzione, di una singola fotografia. L’educazione al rigore, la perfezione, la puntualità, la costanza e la pazienza nel costruire l’immagine, proprio come disciplina, tutte queste cose le ho imparate da lui (Giovanni Gastel). I suoi still life rocamboleschi, senza armature, era quello che mi piaceva da matti, del suo lavoro. Lui applicava la stessa regola nella vita e nelle cose, si metteva lì e costruiva queste piramidi di scarpe in puro equilibrio, proprio per dare quella stessa forza all’immagine. Magari mentre scattava veniva giù tutto, lui si rimetteva li e ricominciava da capo. Questi valori sono tutte cose che su un set, spingono un gruppo di lavoro a lavorare per il medesimo scopo. Così lavorava anche Luchino Visconti.
Come gestisci i profili social?
Ho sempre cercato di portare la mia visione, senza scendere a compromessi. Io uso Instagram per condividere momenti, luoghi, cose che mi piacciono e che non necessariamente sono cose di lavoro. La cosa che mi piace di più che è come avere un negozio aperto 24 ore, sul quale poter postare in qualsiasi momento quello che faccio o qualcosa che mi piace particolarmente. Posto video, suoni, cose di me che fanno ridere, mi piace regalare un sorriso a chi mi guarda. E poi la grandissima comodità di avere, come dicevo prima, una finestra sul mondo, da cui riuscire ad avere un contatto simultaneo con ogni dove. Nuovi amici, luoghi, cose, sono tutte a portata di mano, posso cercare e trovare qualsiasi cosa, ho la biblioteca di Alessandria in tasca e anche il gran bazar di Istanbul. È la grandezza di questo “luogo contemporaneo”, che tutti noi ci portiamo in tasca. Instagram è praticamente l’unico social che utilizzo veramente, mi piace molto, riesci a comunicare quello che sei, quello che vedi, quello che pensi, è una sorta di identikit quello che lasci sulla tua pagina. Ormai anche per lavoro i clienti, vanno prima sul tuo profilo Instagram e dopo semmai, guardano anche il tuo sito.
Come vedi l’ufficio stampa? Ci hai mai lavorato?
Non ho mai avuto un ufficio stampa, ovviamente non lo disdegno. Così come non ho mai avuto un agente, mi piace essere direttamente coinvolto tramite il contatto diretto. Ci sono ottimi uffici stampa, ma preferisco raccontare di persona il mio lavoro. Per come ho costruito la mia professione, funziona tutto tramite Instagram, il mio sito, il lavoro e il passaparola.