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Giulia Ubaldi, antropologa del cibo: «La mia vera ricetta è unire le culture»

di Patrizia Tonin
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Storia, tradizioni, cultura, viaggi e cibo: tutti elementi racchiusi in Giulia Ubaldi, giovane imprenditrice, docente universitaria, scrittrice e viaggiatrice. Originaria di Milano, precisamente del quartiere Giambellino, ha unito la passione per i viaggi con gli studi universitari per farne un mestiere unico: è infatti conosciuta come l’Antropologa del cibo.

Che sia al telefono o di persona, ti sembra di conoscerla da sempre. E quando ti racconta la sua vita dalle mille esperienze, partenze e ritorni, in giro per l’Italia e per il mondo, sembra di essere immersi in altre realtà e, allo stesso tempo, accolti nell’intimità di casa, grazie al sorriso e agli occhi azzurri intensi di Giulia.

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«Viaggiare, per me, significa avere l’opportunità di ricevere un insegnamento, di trovare un nuovo amico, di scoprire una ricetta e rimanere affascinati dai paesaggi, dai racconti e dalle tradizioni delle persone che incontro».

Durante i suoi numerosi viaggi, Giulia ha scoperto che «il cibo unisce più di qualsiasi cosa e permette di andare subito in intimità con le persone, senza limiti di età e senza confini». Per questo motivo, ha scelto di avviare una sua attività imprenditoriale – unica in Italia – il LAC, Laboratorio di Antropologia del Cibo, dove il “mondo è di casa”.

L’antropologa del cibo: ci spieghi l’origine di questo appellativo e se è stata una tua scelta? E in cosa consiste il tuo lavoro?

Ho studiato Antropologia all’Università di Siena poi mi sono spostata a Parigi, dove ho continuato a studiare, senza alcun collegamento con il cibo. Dopo qualche anno, ho fatto un viaggio in Cilento e in Basilicata, insieme a un’amica. In queste terre – che saranno fondamentali per la mia esperienza sul cibo – ho scelto di fermarmi per 4 anni, lavorando negli agriturismi, nelle pizzerie e nelle aziende agricole e, poiché stavo preparando la tesi di laurea sulle cooperative sociali, mi sono appassionata alla “materia prima”. Passione proseguita con il mio ragazzo, insieme al quale ho aperto un’azienda agricola con arance, salumi e zafferano di produzione nostra e un piccolo bed & breakfast.

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Quando mi sono lasciata con il ragazzo, sono tornata a Milano e, nel giro di un anno, la mia vita è totalmente cambiata: scrivevo di cibo e antropologia, unendo così la mia passione per la “materia prima” con i miei studi. Nel 2015 ho scritto per 10 giornali, per lo più racconti sulle vite e i cibi delle persone che incontravo durante i viaggi o che ho ricercato per i miei articoli. Mi piace chiamarle “Piccoli racconti di antropologia” in cui univo anche la componente cibo alla vita delle persone e alle loro tradizioni. Ho scritto anche “100 volte Mezzogiorno“, un libro pubblicato in 10 puntate sulla rivista Vanity Fair.

Hai viaggiato in tutta Italia e nel mondo, hai raccontato le diverse culture attraverso il cibo. Cosa ti ha colpito di più e come hai scelto di comunicare ai tuoi lettori questi viaggi?

Il fatto che i confini sono più labili di quello che pensiamo. Attorno a una tavola le culture e cibo si uniscono e mescolano, creando dei “piatti” unici. Penso a quando ho fatto le prove con la cuoca palestinese nella cucina di mia nonna, che all’inizio lei era molto diffidente, ma quando ha visto il Maqloubeh, ha esclamato: “Assomiglia alla polenta”. E la situazione è diventata subito più rilassata e intima. Ho sempre raccontato i miei viaggi attraverso gli articoli in vari giornali e le docenze a Bergamo (scuola alberghiera) e Milano (Università e Accademia), unendo antropologia e cibo.

Ci racconti perché hai scelto di aprire il Laboratorio, nonostante la tua giovane età. Qual è l’obiettivo di un centro che riunisce le varie culture del mondo, cosa fate e come lo comunichi all’esterno?

Ho aperto il LAC nel quartiere Giambellino, dove sono cresciuta, per rendere fruibile anche agli altri tutto quello che ho visto e mangiato durante i miei viaggi. Più che una scuola, è una casa e un luogo dove si preparano ricette fatte da cuochi internazionali – migranti di prima, seconda o terza generazione – che, durante la serata, ti raccontano la loro vita, l’origine del piatto, la tradizione di famiglia tramandata negli anni. Sono persone conosciute per gli articoli o perché legati alla mia vita in modi differenti. In tutto, al LAC si svolgono 35 corsi di cucine differenti, della durata di 2 ore, per 16 partecipanti di tutte le età e i ceti sociali, italiani e non.

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Inoltre, nel palazzo dove è sorto il LAC c’è un cortile, nel quale ho creato un angolo di “book crossing”, che è diventato in poco tempo una vera biblioteca di quartiere con libri di tutti i tipi. All’interno del Laboratorio, vi è anche una libreria con volumi per consultazione, sia miei sia tematici, e la bottega dei prodotti, tutti selezionati da me. La particolarità del LAC è costituita dagli intrecci di vite che creano dei momenti unici ed emozionanti. Ripenso sempre alla signora albanese che, durante la lezione di cucina balcanica e che ascoltando la storia della cuoca e risentendo i profumi e gli aromi del piatto, si è commossa, trasmettendoci così tutte le sue emozioni e, di riflesso, anche la sua storia. Qui non si raccontano solo storie, ma si abbattono i confini. La vera ricetta del LAC è unire le culture.

Lavori da sola o con un gruppo? Hai un addetto stampa o un’agenzia di comunicazione?

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Ricevo aiuto dagli amici principalmente: alcuni fotografi, un cuoco bergamasco che mi ha dato tutte le pentole del LAC contenute in 30 scatoloni! Astou è una docente di cucina senegalese, oltre che mia assistente e di tutti i cuochi. Mi occupo in prima persona della comunicazione, del sito internet e dei social così come della spesa comprando da piccoli produttori locali, in un’ottica sostenibile e a chilometro zero, e per i prodotti che non hanno breve scadenza, prendo grandi quantità. Penso al riso e all’olio per esempio. Mentre il cuoco/insegnante acquista il cibo per le lezioni.

Qual è secondo te il mezzo migliore – tra video, social network, fotografie, articoli o libri – per comunicare il mondo dell’antropologia del cibo? O quali sono, a tuo avviso, le differenze tra loro?

Il mezzo migliore è, in realtà, vivere questo mondo dal vivo, in particolare il LAC, perché ogni volta è diverso. Dipende dalle persone, dai cuochi, dall’energia ed empatia che si creano durante le serate.

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Hai pensato di implementare il Laboratorio con dei video tematici o un canale YouTube sulle varie cucine del mondo? E di scrivere un libro?

Per ora non faccio alcun video YouTube, anche se mi piacerebbe molto. Purtroppo i costi sono molto elevati e non vorrei mai offrire un prodotto poco reale e “genuino” alle persone che frequentano il LAC. Qui si vivono le emozioni e le storie in maniera sincera e diretta e così deve essere nei video e nelle fotografie che realizzo. Il prossimo obiettivo sarà scrivere un libro sull’antropologia del cibo, grazie anche all’impulso di uno studente che mi ha chiesto di fare una tesi sul LAC e, siccome è molto bravo dal punto di vista grafico, penso che farò un libro di ricette con lui.

Cosa diresti a un giovane che vuole fare il tuo mestiere e un insegnamento ricevuto durante uno dei tuoi viaggi.

Seguire sempre la propria “pancia”, anche nelle difficoltà e non lasciarsi mai abbattere. Non ho mai deciso di fare l’antropologa del cibo, eppure la vita mi ha fatto questo regalo, che custodisce testimonianze, ricordi, abbracci, risate e pianti. E il LAC è il compimento di questi miei anni di viaggi, di conoscenze e studi e, contemporaneamente, è da qui che cominciano nuovi viaggi e nuove storie.

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Hai ulteriori progetti lavorativi per il Laboratorio e per te stessa?

Trovare sponsor e persone che collaborino con me nell’organizzazione e nel trovare prodotti, che “sposino” il progetto del LAC. Mi piacerebbe, inoltre, fare formazione ai bambini e lavorare con le scuole, perché partendo dalla cucina si possono insegnare valori come il confronto fra culture diverse, l’importanza della condivisione, l’utilizzo della fantasia, come ad esempio ha fatto la cuoca venezuelana Maria quest’estate durante il Campus Estivo del LAC, tenuto al Museo delle Culture di Milano. Mi piacerebbe che il LAC – unico caso in Italia – diventasse un format da esportare altrove.

 

Patrizia Tonin

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