Il noto artista genovese ci spiega la sua visione sulla musica e sull’industria discografica attuale, partendo dal racconto della sua carriera.
Francesco Baccini, cantautore nato a Genova, ha iniziato a suonare il pianoforte da piccolo, scoprendo presto la sua passione per la musica. Il suo primo singolo nasce sotto uno pseudonimo nel 1988, e l’esordio ufficiale arriva nel 1989 con “Cartoons”, che gli vale riconoscimenti come la Targa Tenco. Il successo continua con il secondo album e il singolo Le donne di Modena, seguito da Genova Blues in duetto con Fabrizio De André. Vince Festivalbar nel 1990 con Sotto questo sole e con l’album “Nomi e cognomi” del 1992 e raggiunge la fama nazionale. Dopo 30 anni di carriera e una dozzina di album, il successo continua ancora oggi (nel 2022 è stato in tour con l’album “Archi e Frecce” insieme al quartetto d’archi femminile Alter Echo). Con una timidezza che poteva sfiorare l’impedimento, ma un talento che non conosceva barriere, Baccini ci confida di aver trovato nella musica il proprio linguaggio universale.
La sua carriera è iniziata quasi per sfida. Come mai?
Mia madre, con la migliore delle intenzioni, insisteva che cantare non facesse per me, che non dovesse essere il mio cammino. Ma in me c’era questa scintilla, questo desiderio di esprimermi… e ho pensato: “Perché no?”.
Eppure, la timidezza è stata un ostacolo notevole. Come ha superato quella barriera?
La timidezza è stata la mia ombra per anni. Basti pensare che mi eleggevano rappresentante di classe per ridere, perché ero paralizzato all’idea di dover parlare in pubblico. Ma dietro al pianoforte era un altro mondo. Con gli occhi chiusi, mi lasciavo trasportare dalla musica e tutto il resto spariva.
È vero che ha iniziato a cantare di nascosto, in un locale a Genova?
Sì, c’era questo piccolo locale dove mi infilavo di notte. Il proprietario mi offriva soldi per suonare, ma io rifiutavo. Non volevo che la musica diventasse un obbligo, doveva restare una passione, qualcosa che facesse respirare l’anima.
Come è stato il passaggio da interpretare brani altrui a scrivere le sue canzoni?
Dopo un po’, sentivo che avevo bisogno di più. Le canzoni degli altri non mi bastavano, sentivo che avevo delle storie mie da raccontare. All’inizio erano… diverse, diciamo. Sperimentavo con generi diversi, passando dalla classica al blues e poi al jazz, fino a mescolare tutto in un unico brano, proprio come nel brano Le donne di Modena dove ci sono tre generi assieme.
Qual è la differenza tra un cantante e un cantautore secondo lei?
Un cantante vende una canzone, un cantautore vende un intero mondo.
All’inizio della sua carriera quali sono state le reazioni dei discografici alle canzoni?
Beh, ricordo che all’epoca mi dissero che le mie canzoni erano troppo “strane” e “particolari”. Volevano che mi conformassi, che fossi come “qualcos’altro”. Ci volle tempo per farmi accettare come ero. La svolta è arrivata grazie al giornalista Vincenzo Mollica. Incontrai Vincenzo negli uffici della casa discografica e, dopo aver parlato con lui, cambiò tutto. Fece una telefonata a Caterina Caselli e, senza sapere i dettagli di quella conversazione, so che dal giorno dopo mi fu permesso di proseguire come desideravo.
Se dovesse consigliare ai giovani come iniziare una carriera oggi, cosa direbbe?
Onestamente, non inizierei in Italia, oppure mi trasferirei all’estero, visto come funziona il mondo della musica oggi nel nostro Paese. E credo che molti dei cantautori storici farebbero fatica ad adattarsi all’industria di oggi. Un tempo le case discografiche investivano in contratti lunghi, ora è tutto così effimero. Per il mio primo album, per esempio, ho preso una decisione radicale: sono fuggito di casa, ho vissuto in auto e mia madre non ha avuto notizie di me per sei mesi. Tuttavia non era una scelta impulsiva, sapevo esattamente quale direzione prendere e quando ho iniziato avevo tre album già pronti. La convinzione in quello che facevo era così forte che nulla poteva fermarmi, anche se oggi, ripensandoci, mi sembra una follia. Lasciai un lavoro sicuro per inseguire un sogno che sembrava impossibile. Dopo tre album, la casa discografica voleva cambiare la mia direzione artistica, ma ho scelto di andarmene, nonostante avessi ancora due album da fare secondo il contratto. La mia arte è un’espressione personale e non negoziabile. Ai giovani artisti dico sempre di restare fedeli a sé stessi, senza compromessi, e di non dimenticare mai le loro origini.
Perché per lei è fondamentale che la gente assista ai suoi concerti per capirla meglio?
Per comprendermi appieno è necessario vivere l’esperienza del concerto perché è lì che mostro pienamente chi sono, con tutto il tempo che serve, in un’era che invece brucia i minuti. La vera essenza di un cantautore si svela nel tempo, non nell’istantaneo.
Qual è la sua visione sul futuro dei cantautori in Italia?
È incerto, francamente. C’è sicuramente qualcuno là fuori che sta facendo grande musica nell’ombra, ma oggi, nel mercato attuale, è difficile trovare la propria strada, soprattutto per i nuovi talenti.
Ritiene che la musica sia diventata troppo commerciale?
Purtroppo, sì. La musica spesso si riduce a un prodotto e molti giovani artisti finiscono per essere strumentalizzati dall’industria.
Ha avuto anche esperienze nel cinema?
Nonostante avessi ricevuto offerte di recitazione, all’inizio ho preferito concentrarmi sulla musica. Ma nel 2006 ho accettato la parte in “Zoè”, film presentato al Giffoni Film Festival. La recitazione mi è venuta naturale, è divertente immedesimarsi in un altro personaggio: è stata un’esperienza incredibile. In seguito, ho anche recitato in un corto che mi ha fatto vincere un premio come miglior attore.
Quale è il suo rapporto con i social? Usa una strategia di marketing?
Io sono “l’anti marketing” per eccellenza, faccio solo ciò che mi rende felice fare, se fossi costretto a seguire una strategia non funzionerei. I social sono divertenti, li uso come espressione di certi miei pensieri e, a volte, lancio delle provocazioni per nessun altro motivo che per puro piacere di farlo.