Lo scrittore ravennate vive l’uso dei social come «il normale evolversi delle forme di scrittura, che implica un rapporto, anche con rapidi botta e risposta, con i lettori e gli utenti e richiama tutti a una immediata assunzione di responsabilità».
La Romagna è la terra in cui è nato e vive tuttora, una terra a cui si sente profondamente legato da una sorta di cordone ombelicale, come lui stesso ci racconta, ed è proprio questo sentimento così forte che l’ha resa spesso protagonista delle sue innumerevoli opere. Lo scrittore e antropologo ravennate, nonché sceneggiatore per il cinema e la televisione, Eraldo Baldini ha infatti raggiunto la fama internazionale grazie ai suoi romanzi (l’ultimo per Rizzoli “La palude dei fuochi erranti”) e ai suoi saggi (nel 2020 “Romagna arcana. I folletti, le fate, la Vecchia, la Borda, i draghi e altri esseri fantastici ed entità misteriose”, “Dante in Romagna” e “Quel che vedevano in cielo Uomini e lupi in Romagna e dintorni. Realtà e mito, attualità e storia”) di genere noir, horror e mystery, dove narra di storie, tradizioni e riti appartenenti a questa misteriosa terra fatta di folclore, culti e passione, la Romagna appunto.
Nei suoi saggi e tra i suoi romanzi emerge questo amore per la terra in cui è nato e vive tuttora: la Romagna con i suoi riti, le sue tradizioni e il suo folklore. Da dove nasce questa passione?
Nasce innanzitutto come sentimento che, credo, è comune a tutti o perlomeno a molti: c’è un legame, una sorta di cordone ombelicale con la terra in cui si nasce e in cui sono nate innumerevoli generazioni di tuoi antenati. La mia infanzia l’ho vissuta tra gli anni ’50 e gli anni ’60 in un paesino della campagna ravennate in cui erano ancora vivi diversi aspetti della tradizione e della cultura popolare, oltre che di una forte “identità”, che mi hanno fatto crescere sentendomi parte di qualcosa di profondo e di condiviso, di una dimensione esistenziale che non era priva dell’incanto dell’immaginario e del magico, che era sintonizzata sull’avvicendarsi delle stagioni in una concezione del tempo ancora in parte ciclica e che aveva anche consistenza narrativa attraverso le fiabe, i racconti degli anziani e le memorie della comunità. Sin da piccolo ho avuto la curiosità di conoscere sempre meglio questo fazzoletto di terra che ha campagne rigogliose, città ricche di storia, colline dolci, montagne alte e ricoperte di selve, mare, acquitrini e paludi. Un mondo variegato e intriso di mille suggestioni. Da sempre ho voluto esplorarlo, questo piccolo universo, capirlo, studiarlo e infine raccontarlo sia con romanzi e racconti, sia con saggi di carattere storico e antropologico-culturale.
Qual è il lato “stregato” della Romagna che non conosciamo?
Ribalterei la domanda: qual è il lato che crediamo di conoscere e che invece è fuorviante. Dagli stilemi decontestualizzati desunti dal “Romagna solatia” del Pascoli fino alla “musica solare” dei Casadei e all’immagine stereotipata che della Romagna spesso è offerta dai media, è stato e spesso ancora è tutto un susseguirsi di cartoline superficiali e di luoghi comuni. La realtà è che, come ogni terra del mondo, la Romagna ha una sua meravigliosa lingua formatasi nei millenni, ha una storia densa fatta di sacrifici, di lavoro, di lotte e anche di drammi, ha una cultura popolare che contempla un “lato oscuro” fatto di timori, leggende, suggestioni legate al misterioso e al mitico, ecc. Però, a differenza di quanto è accaduto altrove, qui ciò non ha mai condotto al fatalismo, a un atteggiamento negativo e accidioso: qui in fondo hanno spesso vinto l’intraprendenza, il carattere forte e una buona dose di ironia e di sarcasmo battagliero.
C’è un attributo che la segue e che è anche il titolo di un suo libro: “gotico rurale”. Cosa vuol dire?
“Gotico”, seppure in un uso un po’ forzato del termine, sta per un argomento e una cifra narrativa declinati sul mistero, su quel “lato oscuro” di cui dicevo, su ciò che almeno apparentemente trascende la natura e la norma, in un contatto con forze arcane e con la “realtà dell’irreale”, per usare un gioco di parole. “Rurale” perché le mie storie sono ambientate principalmente nel mondo contadino, nelle plaghe marginali e lontane dai contesti urbani, e affondano le loro motivazioni e le loro radici nell’humus delle vecchie leggende, tradizioni, superstizioni, cioè in quello strato della cultura e della memoria che oggi sembra scomparso, ma che in realtà, come un fiume carsico, io continuo a sentire (o almeno vorrei che fosse così) scorrere sotto la patina della modernità.
Da antropologo di fama internazionale, qual è il modo giusto per uno scrittore di curare il suo brand personale?
Forse per età, per mentalità, per carattere personale e per una mia scarsa propensione all’apparire e al relazionarmi, devo ammettere che ho molte difficoltà a rispondere a questa domanda. Credo che il “brand personale” debba consistere più che altro nei contenuti e nella forma di ciò che si scrive o si produce.
Crede che l’Italia sia ancora indietro in termini di cura della propria personal identity o personal branding rispetto all’estero?
Può darsi, ma, come ho detto sopra, non sono un esperto di questi aspetti, che in parte comunque spettano anche agli editori. Le mie uniche “competenze” in merito, ora che per età, acciacchi e progressiva “orsaggine” mi muovo molto meno e ho diradato (complice anche il Covid) la partecipazione a presentazioni, festival ed eventi vari, consiste in un uso costante dei social media.
Quale dovrebbe essere la dote principale che non può mancare in uno sceneggiatore? E in un autore teatrale?
Capire che ogni forma narrativa (carta, schermo, palcoscenico) ha un proprio linguaggio e la necessità di usare approcci e ritmi diversi. Inoltre, così come accade per la scrittura tout-court, è necessaria una pratica costante nei due ruoli di autore e di spettatore: non si può essere scrittori se non si legge molto, non si può essere sceneggiatori se non si guardano molto cinema e tivù, eccetera.
Cura anche una rubrica su ravennanotizie.it dedicata ai romagnoli nel mondo. Da dove nasce il progetto? E in che modo vive “l’approccio digitale” della scrittura e il suo rapporto con gli utenti online?
Quel progetto, se vogliamo, fa parte di uno più ampio che mi ha portato a raccogliere da sempre, attraverso le mie letture, la mia ricerca quasi “collezionistica” di testimonianze e documenti in ogni tipo di fonti e nella mia frequentazione di biblioteche e archivi, tutto ciò che ritenevo interessante riguardo alla storia, agli aspetti, ai personaggi della mia terra, verso la quale continuo a nutrire qualcosa che si può riassumere anche con la parola “curiosità”. L’approccio digitale lo vivo come un normale evolversi delle forme di scrittura, che implica un rapporto, anche con rapidi “botta e risposta”, con i lettori e gli utenti: a volte non è semplice, ma è certamente istruttivo e costruttivo per chi scrive, chiamato, diciamo, a una immediata “assunzione di responsabilità”.
Qual è la differenza nell’affrontare una pagina bianca e la telecamera di un’intervista?
Per come son fatto io, è come chiedermi se preferisco andare in pasticceria o dal dentista… sono riservato, non amo molto apparire anche se a volte devo farlo, adoro “la pagina”, bianca o meno che sia, di monitor o di carta che sia (anche se continuo a preferire la carta), per cui mi trovo a maggiormente a mio agio nel puro e semplice “rapporto di coppia” io-pagina, senza troppe intermediazioni.
Cosa consiglierebbe ad un giovane scrittore emergente?
Leggere molto, è ovvio, privilegiando le cose migliori. Poi essere umile anche se ambizioso, e non farsi prendere dalla fretta: i frutti devono maturare, per essere buoni. Infine, curare il possesso di una cultura di base ampia e articolata: di ciò che si scrive – e non solo di quello – (ambiente, personaggi, contesto storico e sociale, ecc.) si deve conoscere il più possibile, in tutte le sue sfaccettature. Mi viene in mente quanto confidava in una intervista Ernest Hemingway rispetto al suo romanzo breve “Il vecchio e il mare”: raccontava di essere rimasto a lungo presso una piccola comunità di pescatori e di averne condiviso il lavoro, le emozioni, la vita quotidiana, arrivando, di loro e del loro mondo, a conoscere 100 (scusate se faccio una semplificazione in termini numerici) per usare nella stesura del romanzo, di quel 100, solo un 10: ma se non avessi saputo il 90 restante, diceva lo scrittore americano, il libro non sarebbe stato così buono. E in fondo è così che funziona.