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La poliedricità di Donpasta, da attivista del cibo a regista: «Le nonne mi hanno salvato»

di Jessica Vengust
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Personaggio eclettico e amante della musica e del buon cibo. Il New York Times lo ha definito uno dei gastro-attivisti più inventivi. Chef, dj e regista, Daniele De Michele aka Donpasta ha fatto della poliedricità la sua forza. Ma non parlategli di brand: Don Pasta resta un progetto puramente artistico, senza secondi fini se non quelli di fare progetti culturali.

Cominciamo dall’inizio: Daniele nasce a Otranto, Donpasta a Parigi, a Montmartre. Come ha origine l’idea del tuo alter ego?

Faccio il dj da quando ho 18 anni almeno 4 volte alla settimana. Donpasta è un nome che mi diedero degli amici al pub senegalese Jungle Montmartre a Parigi. Lavoravo mettendo musica funk jazz e, alle 2:00, quando chiudeva il locale, mi chiedevano sempre di cucinare la pasta per loro. E così, nel meticciato più bello che abbia mai visto è nato Donpasta. È un nome che ho sentito subito sulla pelle, ne ho sentito la forza, e l’ho mantenuto. Donpasta mi ha consentito di fondere insieme le mie due grandi passioni: la musica e la cucina.

È così che comincia la tua carriera da gastro-dj?

Nel 2006 ho pubblicato Food Sound System (che Daniele stesso descriverà un “progetto multimediale in cui si mescolano cucina salentina, musica, racconto popolare e immagini, per uno spettacolo a 360° tra il teatro contemporaneo, le favole di un vecchio cantastorie e le disavventure di un cuoco maldestro”). All’epoca non c’erano altri progetti del genere che parlassero di cucina. All’inizio sul palco ero un cane. Mi ricordo una serata al Teatro Eliseo di Roma: avevamo organizzato uno spettacolo stupendo con un circo contemporaneo, c’erano più di 1.000 persone, e io ero fuori luogo, non capivo le regole della drammaturgia. Nel tempo ho dovuto iper-professionalizzarmi per sopperire alle mie lacune.

Tu però non nasci (solo) dj.

Sono nato a Otranto, quando nel ’92 sono arrivato a Roma mi sentivo già in forte contrasto. Venivo da una cultura salentina rurale, andavo in giro con il sugo della nonna, non avevo mai visto un surgelato. È stata per me la più alta manifestazione delle mie origine, sintomo di parsimonia, ecologismo coercitivo e senso di comunità. Sono venuto a Roma per studiare, ero un economista politico, mi occupavo di sviluppo del territorio e cultura identitaria, la ricerca antropologica è sempre stata dentro di me.

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Donpasta con Marino Sinibaldi
Photo: Alessandro Petrocco

Con il tempo ho capito che l’autenticità della cucina stava nelle persone vere, nelle nonne. Ho cominciato così ad andare dalle persone che erano rimaste radicate nelle loro tradizioni. Nessuno si interessava a loro. Prima della moda degli chef e del mondo gourmet gli unici a parlare di cucina erano Slow Food e il Gambero Rosso. Io volevo andare dalle nonne. Pian pianino andando avanti ho capito che la mia idea aveva un senso. Ho fatto un lungo viaggio in Italia, parlando e incontrando un sacco di persone e ho scritto l’Artusi Remix.

L’Artusi Remix è un ricettario della cucina popolare italiana fatto da un collage di interviste, testimonianze, parole e immagini intergenerazionali, che vuole essere un omaggio a Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana. Perché come scrive Donpasta stesso «la cucina italiana nel suo esser cucina geniale a partire da poco, ha aiutato a vivere con dignità nella disoccupazione, nelle ingiustizie, nelle emigrazioni, durante regimi infami, nella guerra, nella fame. Proteggiamoci, soffriggete».

Da attivista musico-culinario a regista, qual è stata l’evoluzione di Daniele?

Dopo quel viaggio in giro per l’Italia (ne abbiamo fatto poi una web serie con Treccani e il Corriere della Sera che si chiamava appunto “Nonne d’Italia”) ho capito che documentare le tradizioni era diventata la mia nuova droga. Non volevo più fare i live e ho iniziato a farmi una cultura cinematografica da autodidatta. Stavo iniziando a girare un film sugli artigiani, poi è arrivata la pandemia. Avevo da poco comprato una cinepresa, dovevo andare avanti nonostante tutto. È nato così Naviganti, un film delirante tra arte e capitalismo in tempo di Covid. Non avevo una sceneggiatura, seguivo gli eventi, andavo a braccio.

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La questione sociale era diventata di nuovo un oggetto di studio. Sentivo che era una pista interessante, la strada mi era entrata dentro, capivo che ero sulla via giusta. Le difficoltà (anche economiche) non sono mancate. Filmavo dal balcone di casa come tutti, in certi momenti è stato un vero bagno di sangue: era un progetto ultra low budget, completamente rock and roll. Avevo seguito una direzione punk, l’unica regola che mi ero dato era di saper attendere. Mi sono confrontato con professionisti del settore che mi avevano detto di prendermi il mio tempo, aspettando che l’epoca che stavamo vivendo si storicizzasse.

Nel film Naviganti io compaio involontariamente, ho dovuto “mettermi dentro come vittima”. La mia intenzione iniziale era di focalizzarmi sul capitalismo. Poi, ho capito che la cosa più interessante era lo sguardo dell’artista all’interno di una crisi collettiva. Mi sono dato il giusto tempo, mi sono messo a cospetto della storia e della sua scrittura in itinere. Alla fine è venuto fuori più di quello che pensassi: abbiamo vinto un bando con Apulia Film Commission e con Fondazione con il Sud.

Quando ho visto in televisione “Natale con Donpasta – Di quello che ci sta, non ci manca niente, viaggio nel mondo della cucina e delle tradizioni del nostro Paese”, ho pensato che era esattamente quello di cui avevamo bisogno a Natale: tradizione e fattore umano. Come sei riuscito a spostare il focus dei media dal consumismo all’autenticità popolare?

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Per 10 anni ho preso le porte in faccia. Mi dicevano «quello che vuoi fare tu, non lo farai mai». Gli unici che mi invitavano erano gli autori di Geo&Geo. Io pretendevo che la cucina di massa fosse egemonica rispetto a quella aristocratica, per me questa visione era diventata una fissa, come all’epoca lo è stata per Luigi Veronelli e Mario Soldati. Per anni non mi sono sentito capito dai media, mi proponevano di partecipare ai talent come Masterchef o Pechino Express: ho sempre detto di no. Sentivo di aver creato un pezzetto d’arte, e quando tocchi determinati argomenti autentici, la loro purezza va conservata. La tv è arrivata proprio quando pensavo che Donpasta fosse morto. Il Covid probabilmente ha creato un buco su alcune tematiche, come la cucina, che andava colmato. Negli anni avevo raccolto un archivio di interviste infinito. Ed è da questo bacino che ho attinto quando La7 mi ha chiesto di lavorare al progetto andato in onda a Natale.

Dopo La7 è arrivato il programma Sky “Se hai un problema, aggiungi olio” in onda su Gambero Rosso Channel.

Sì, con il Gambero Rosso abbiamo creato 10 puntate nel mio modo. È stata una grande soddisfazione per me far comprendere il mio linguaggio, il richiamo della ricerca antropologica, il mio voler restare radicale. In questo progetto ci metto la faccia, anche se con il tempo ho capito che preferisco stare dietro la telecamera.

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Che comunicazione instauri con le persone che diventano protagoniste delle tue interviste?

Io intervisto persone con una bassa alfabetizzazione: chi è istruito ha un rapporto scisso tra corpo e lingua. Le persone che incontro hanno per lo più imparato il dialetto ascoltando e non studiando, ciò ha un aspetto cognitivo collegato fortemente alla funzionalizzazione del corpo. Le nonne che intervisto mi parlano in dialetto, ciò permette loro di sentirsi più libere e aperte e a me di empatizzare di più. È molto emozionante. Per imparare qualcosa da qualcuno bisogna saperlo ascoltare, io mi pongo sempre con una postura da bambino, ciò mi permette di avere una maggiore ricettività e un rapporto alla pari: è un atteggiamento che ho imparato grazie a un percorso di psicoterapia. Mi sento di avere un ruolo quasi politico quando ascolto le loro storie, sento che devo rappresentarli in qualche modo. Quando entro nelle loro vite si crea una certa sintonia che fa concludere le interviste con una bottiglia di vino condivisa. Per me non è un peso emotivo, anzi. Le interviste mi permettono di portare dei valori. Quando le persone si rivedono in tv, si commuovono, perché sentono che sono stato onesto.

photo: Cristina Zuppa

Sarebbe giusto chiederti se oggi sei più Donpasta o più Daniele De Michele?

I film e i documentari li firmo con il mio nome. Devo dire però che ho finalmente fatto pace con il mio alias, c’è stato un periodo in cui mi sono sentito in contrasto, la cosa mi era sfuggita di mano e non volevo rimanerne sepolto.

Hai pensato di scrivere un libro autobiografico?

La mia vita è sempre stata molto rock and roll: dormo poco e in passato sono stato molto duro con il mondo. Cerco di star meglio, ma quando provo a scrivere non ci riesco: la scrittura mi mette ancora un po’ di ansia.

 

Jessica Vengust

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