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Deodato Salafia: «Con la tecnologia avvicino gli appassionati d’arte alle gallerie»

di Paolo Robaudi
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Ama definirsi nerd e monaco contemporaneo, ma anche esploratore. Deodato Salafia – gallerista, laureato in Informatica e in Teologia – è molto di più. Esperto di marketing digitale, arte contemporanea, NFT e architetture di dati, Salafia ha unito le conoscenze sulle nuove tecnologie alla sua passione per l’arte fondando LIEU.CITY, prima piattaforma social che permette di visitare ambienti espositivi in Realtà Aumentata.

 

L’autorevolezza nel mercato si raggiunge con la presenza, sia fisica che in rete.

 

Deodato, per avvicinare gli appassionati al mondo dell’arte moderne, hai scritto un libro dal titolo “Le Tue Prime Cinque Opere d’Arte Contemporanea”. Raccontaci brevemente il tuo percorso professionale.

Provengo da una famiglia in cui l’importanza dello studio è sempre stata centrale, i miei erano persone umili, non avevano potuto farlo. Nel 1986, a sedici anni mi ritrovai con un computer molto potente tra le mani: invece di giocare, lo utilizzai per imparare la programmazione. Questo mi portò a essere un buon programmatore già a diciannove anni, quando poi iniziai l’università capii l’importanza della matematica e della logica, forse ancora più importanti che studiare programmazione. Mi ritrovai così nel ’96, ad avere un’ottima competenza teorica e tecnico pratica.

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Banksy, “Sale Ends”

Anche lì feci la scelta giusta, rifiutando un lavoro ben pagato in America e accettandone uno in Francia mal pagato, ma che mi permise di diventare un esperto di Internet già verso la fine degli anni ’90. Questo mi portò ad avere una società informatica con una sessantina di persone a soli 31 anni, partendo sostanzialmente senza soldi. Questa società riuscì a venderla poco prima della bolla della “New Economy”, così mi ritrovai con un po’ di soldini e la possibilità di investire. Iniziai a comprare opere d’arte, esponendole in ufficio. Da lì cominciai a comprare opere e a venderle: questo “giochino” durò una decina di anni, più per gioco che per lavoro. Iniziai ad accumulare opere, finché nel 2010 vendetti l’ennesima società, per ritrovarmi a cercare di nuovo uno spazio in cui lavorare: così al posto di un ufficio presi una galleria, senza avere nessuna idea di come gestirla.

Come funzionano oggi le tue gallerie?

In altri settori questa è storia, nell’ambito delle gallerie d’arte sono un pioniere. Tutto si basa sul concetto di: “ZMOT”, zero momento of true. Il “momento zero della verità” è quello stadio del processo decisionale di acquisto in cui il consumatore, con un’esigenza latente, raccoglie informazioni in rete e valuta se acquistare o meno un prodotto, prima ancora di entrare in contatto fisico con il prodotto medesimo, ovvero prima di recarsi in un punto vendita. Per farla breve, bisogna essere presenti in maniera “multicanale”: noi lo siamo in maniera strutturata e riceviamo ogni giorno dai 1.000 ai 1.500 visitatori e questo è il primo elemento del “Funnel”. Circa 100/120 lasciano l’email, rispondiamo a tutti e alla fine dopo un’ulteriore scrematura, arriviamo a 10/15 persone realmente interessate, di queste 4/5 comprano. Per fartela breve dal 2015 abbiamo tutti gli anni raddoppiato il fatturato, tranne nel 2020 per il Covid, quando comunque abbiamo consolidato i risultati degli anni precedenti.

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Brainwash, “Einstein”

Da chi è composto il tuo mercato?

Il 90% in Italia e il 10% all’estero, il sito è internazionalizzato: volevamo espanderci verso l’estero ma la pandemia ci ha limitato. Nonostante questo abbiamo aperto gallerie all’estero, a Bruxelles e in Svizzera. Fino al 2018 abbiamo operato in Italia, affermandoci sul mercato nazionale, mentre per ora all’estero ci siamo limitati a tastare il terreno con alcune sedi. Ti faccio un esempio: se io chiudessi il sito online, perdo il 90% del fatturato, se chiudo le sedi fisiche, perdo sempre il 90% di fatturato. È il mix delle due cose che funziona, l’autorevolezza nel mercato si raggiunge con la presenza, sia fisica che in rete. Senza l’online un cliente non ti trova: è anche vero che chi compra online entro certe cifre l’opera se la fa spedire, mentre chi spende di più vuole il “contatto” fisico. L’opera il cliente prima di comprarla, vuole assaggiarla.

Come ti consideri oggi: gallerista, imprenditore o esploratore?

Mi piace esploratore, avrei detto “Nerd”, ma scelgo “Esploratore”. Assolutamente esploratore, non ho moglie e non ho figli, per me questo resta un hobby: anche se genera un giro di affari di 6/7 milioni di euro all’anno, sarei disposto a perdere tutto domani. Bellissima definizione, esploratore.

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Photo: Emanuele Scilleri

Cosa ti ha avvicinato all’arte? Il gusto del bello, il piacere per l’investimento o la scommessa su un artista?

Prima di tutto il gusto per il bello, l’investimento non c’è mai stato. Adesso dopo dieci anni incominciamo a fare operazioni per investimento, però da qualche anno è subentrato il piacere per la scommessa. Io dal mondo dei mercanti di arte ho sempre avuto grandissime critiche, perché esponevo i prezzi delle opere, mischiavo i generi. Mi viene in mente la storiella del giovane e l’asino. Dove alla fine l’asino muore, perché tutti dicono al giovane come gestire l’asino. Ho tirato dritto per la mia strada, ho due lauree, una in informatica e l’altra in teologia. Ho seguito per lavoro lo sviluppo di aziende, dalle banche fino alle industrie manifatturiere, ma perché mi dite che il mondo dell’arte è diverso? La risposta non c’era, la cultura dicevano; la cultura aggiunge valore, non sottrae. Anche le scarpe sono cultura, il latte è cultura, allora andavo in contrapposizione divertendomi. E poi parliamo anche di soldi. A quel punto lì è scattata la scommessa e infatti adesso alcuni di questi amici galleristi, perché poi ci faccio anche business, con il Covid hanno iniziato la retromarcia.

Come scegli gli artisti contemporanei con cui lavorare?

Fondamentalmente ci sono due criteri: il primo è il business e il marketing. Noi pensiamo di avere un ruolo in Italia nell’ambito della Street Art e della Pop Art, abbiamo ottenuto questo posizionamento quindi ci sono artisti internazionali posizionati su questo segmento, facciamo di tutto per contrattualizzarli e averli. Per quanto riguarda gli artisti emergenti, sentiamo la responsabilità nel farli crescere: in questo caso la selezione è più complessa, perché sono tantissimi e anche molto bravi. Come li scegliamo? Intanto devono essere nell’ambito del nostro posizionamento, professionisti, simpatici, devono crederci loro per primi. Noi facciamo una scommessa di lungo periodo, dando uno stipendio all’artista in modo che possa vivere, imponendo delle marginalità all’artista che se va bene ci permettono di potere rientrare nell’investimento. Parliamo di uno o due anni senza rientro, stipendio, mostre, fiere, cataloghi, sono tutte cose molto impegnative e costose. L’attività con i primi permette di investire sui secondi, fino a ora il gioco dei vasi comunicanti ha funzionato.

Cosa pensi degli NFT?

Ho scritto un piccolo manuale sugli NFT: io non penso siano correlati all’arte, sono correlati ai notai. L’arte digitale esiste da molto tempo: Warhol e Nam Jum Paik sono stati tra i precursori, ho sempre avuto un ottimo rapporto con l’arte digitale. La mia prima opera acquistata era digitale e ne ho sempre collezionate tante, che non ho mai rivenduto. Il mio cuore batte per l’arte digitale, sono informatico. Gli NFT sono un protocollo per certificare un contratto, come le cripto valute, sono mere stringe di BIT, opportunamente protocollate che acquisiscono valore. Quando qualcuno ha associato queste stringhe a un’immagine, il mondo degli speculatori ha capito che unendo le due cose, si poteva fare ancora ancora più profitto. Il tutto passa dalla distribuzione: compri un’opera, ma l’opera rimane su un server. Il giorno in cui spengono il server, il database si perde, ti rimane il protocollo ma l’opera non c’è più. Usalo come se fosse un cartellone pubblicitario in Piazza San Babila a Milano, sono operazioni di marketing, la vera arte fa guadagnare accidentalmente, non puoi comprare per motivi speculativi. Ti compri il futuro Fontana quando non è nessuno e dopo vent’anni, che ce l’hai sopra al caminetto, lo rivendi guadagnando il giusto. Io sono uno dei pochi galleristi che dissocia l’arte dall’investimento, anche se poi purtroppo l’arte è anche un investimento. Ma questo è accidentale.

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Savethewall, “Arte contemporanea”

Come guardi un’opera?

Prima guardavo un’opera come si guarda una finestra. Non c’è invenzione più bella della finestra nel mondo. Poter osservare fuori. Oggi invece mi capita di osservare di più l’evoluzione di un artista nel tempo. Osservando tantissime opere, guardo più l’artista che l’opera, questo è stato il mio cambiamento nel tempo.

Il mercato dell’arte è molto volubile, come si affronta?

Oggi è un po’ tutto volubile, si possono influenzare le persone, lo vediamo dalle informazioni giuste o false che diventano virali: in più questo mercato si sta segmentando tantissimo. Anche il marketing suggerisce di avere una focalizzazione, un posizionamento dentro al quale poi fare delle scelte curatoriali. Nel mercato la scalabilità è importante, se vuoi espanderti internazionalmente devi avere l’appoggio delle banche, degli stakeholder. Tutto questo per partecipare al grande gioco: bisogna essere in ordine per arrivare in Francia, in Belgio, in Svizzera, ci si deve attenere alle regole del mercato internazionale. Dietro a un imprenditore ci sono delle scelte, come presenti un bilancio ha a che fare con quello che sarai tra dieci anni. Viviamo in un mondo connesso. Bisogna avere la visione giusta.

Teologia e Arte, cosa hanno in comune?

In passato tantissimo, nell’arte contemporanea relativamente poco. Oggi gli artisti hanno a che fare con la socialità, sono più attenti al contemporaneo. Alcuni hanno una componente spirituale mentre ad altri non interessa minimamente. Sono come tutti, non c’è alcuna regola, il misticismo e la spiritualità o ti appartengono oppure meglio lasciar stare. Oggi il messaggio nell’arte è sociale, riguarda il mondo contemporaneo, sono come sottolineature, evidenze messe in risalto. La spiritualità dell’artista contemporaneo consiste nel vedere cose che ad altri non appaiono così evidenti. Non c’è nulla di escatologico o ontologico. La maggior parte delle persone ragionano in termini emotivi, seguendo logiche “WinWin o Loser”: nell’arte contemporanea c’è questa sottotraccia, l’artista critica o esalta la società in base alla sua posizione nei confronti della stessa. Oggi tutto segue la logica del “Click Bait”, i famosi 15 secondi di notorietà, evaporati, nella Rete. Oggi si va meno in profondità, ma si spazia anche molto di più: se vedi i vari movimenti che ci sono nel mondo, c’è più libertà di movimento “mentale”.

Quale altra strategia di comunicazione vorresti implementare, anche tecnologica? 

Questi ultimi due anni, prima che Facebook annunciasse il Metaverso, ho iniziato a lavorare sulla realtà virtuale e ho fondato questa start up per la fruizione virtuale delle opere che si chiama Lieu.city. Sempre per fare dell’innovazione e della ricerca, la società è proprietà della galleria al 100%. Abbiamo iniziato a giocare con la Virtual Reality, l’Augmented Reality e i Bot fin dal 2019, poi è arrivato il Covid e abbiamo lavorato tanto sul Metaverso: infatti Lieu.city è un metaverso verticalizzato per la cultura. Oggi il tema è più tecnologico, prima non c’erano le strutture per poter scommettere su queste tecnologie. Ora abbiamo i software e i processori, ma anche il problema dell’appliance: un casco pesa sempre mezzo chilo… Io ci sto investendo molto, ma so che siamo ancora alla televisione in bianco e nero. Però la tecnologia va talmente veloce che quello che è successo negli ultimi trent’anni, succederà nei prossimi cinque. Nei prossimi anni, grazie alla realtà aumentata, in macchina guarderai un monte e sul vetro ti apparirà il nome del monte: non potremo più andare in giro senza gli occhialini… Quando incroci una persona saprai come si chiama, cosa fa, tramite i social saprai tutto, anche come è vestito. Sarà una totale violazione della privacy, ma per assurdo, filosoficamente parlando, quando potremo riconoscerci tutti, saremo più liberi, perché impareremo ad accettarci per quello che siamo.

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Andy Warhol, “Vesuvius”

Come gestisci la tua immagine? Hai un ufficio stampa?

Siamo in un momento di spartiacque. L’ho sempre gestita rimanendo dietro le quinte, non sono un uomo di front-end, ho iniziato poco prima del Covid a fare qualche intervista video, proprio per rispondere ad alcune critiche sulla mia posizione. Si ho un ufficio stampa, con il quale collaboro da tempo e si occupa appunto dei contatti con i media e promuovere le nostre iniziative della galleria. Ho scritto anche un libro: “Le tue prime cinque opere d’arte contemporanea”. Adesso con l’espansione internazionale ho le mie collaboratrici che mi dicono che dovrei essere più “Social”. Usiamo tantissimo Instagram per la galleria ma io a livello personale faccio fatica. Sono delle arene, in cui ci sono categorie di persone che riversano tutto il loro odio verso gli altri. Allora io faccio veramente fatica. Che poi in Europa abbiamo Instagram, Facebook, Linkedin, TikTok: ce ne fosse uno europeo… Non lo so, sono un po’ confuso, la gestione della mia immagine la affiderò a terzi: finora l’ho fatto io, senza mai preoccuparmi di arrivare o apparire nel modo giusto per il business. In futuro qualche consulente esterno mi dirà come “posso essere me stesso”.

 

Paolo Robaudi

Photo Cover: Emanuele Scilleri

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