Il racconto di un professionista della panificazione che – con un’azienda di sessanta persone – ha creato una filiera tracciabile, lavorando grani antichi e producendo pani che avessero personalità. «Progetti editoriali, formazione, uso creativo dei social, relazioni che vadano oltre il buongiorno e buonasera. Perché fare il panificatore è un mestiere creativo e può essere trasmesso con la stessa passione».
Davide iniziamo dalla tua storia in sintesi: qual è il percorso che ti ha portato fin qui?
Sono figlio e nipote di fornai: nei primi anni ’90 il consiglio di papà era di fare altro nella vita. Mi sono laureato in lettere e poi sono andato a lavorare all’agenzia fotografica “Contrasto-Magnum” occupandomi di produzione. A trent’anni facevo un lavoro che non mi soddisfaceva, perché non coglievo tutti i passaggi della produzione: così sono tornato a un processo lavorativo che mi ha permesso di vedere tutta la filiera. Questo nel 2003, di fatto tornando indietro sui miei passi. Però con un’idea di fare il pane alla mia maniera: pasta madre, filiera corta, grani macinati a pietra, per avere tutto sotto controllo. Dal campo alla vendita.
Di quante ore è fatta la tua giornata?
Vita e lavoro coincidono, per fortuna. È come se non lavorassi.
La tua famiglia che dice? Collaborano con te?
Sono contenti, ma fortunatamente restano fuori. La famiglia in Italia è un vincolo, mia madre mi mette un’ansia, meglio di no. Se sapesse quello che faccio…
Come hai maturato questa visione?
Semplicemente attraverso l’idea di fare un prodotto che fosse contemporaneo. Una filiera tracciabile, grani antichi, pani che avessero personalità, texture e sapore. Ho iniziato nel laboratorio di mio padre, a Carate Brianza. Poi da lì ho iniziato a fare ricerca in laboratorio e a frequentare i mercati con Slow Food. Nel 2012 ho fatto il grande passo, distaccandomi da mio padre e aprendo il mio negozio a Milano, in via Tiraboschi. Milano è sempre una città pronta ad accogliere: da lì ho trovato la clientela predisposta e poi l’incontro con Andrea Perini di “Terzo Paesaggio”, i campi di Chiaravalle e anche l’apertura di altri negozi.
Il “Gambero Rosso” ti ha premiato: “Padre Panificazione Moderna”. È una bella responsabilità?
No! Faccio un pane tradizionale con la pasta madre, un sistema che era stato interrotto nei primi anni ’90, con leggi che hanno di fatto avvantaggiato la produzione industriale, mettendo sullo stesso piano prodotti completamente diversi, come qualità di lavorazione e come materie prime. Io ho semplicemente applicato il concetto di produzione moderno a una lavorazione antica. Ora tra laboratorio e negozio, lavorano in sessanta persone: però negli anni ne sono girati a centinaia e, di quelle centinaia, diversi hanno aperto un negozio in proprio, avviando anche la loro produzione. Di fatto abbiamo creato una rete di panificatori, innovatori. Da noi c’è una scuola, come una sorta di bottega di un tempo in cui un panettiere – oltre a produrre pane – produce anche… panettieri!
Ho visto il tuo “Panettone Californiano” e il tuo motto: «Spostare il sapere, non le merci»: da dove viene?
Questo succede ogni anno, perché esportare panettoni artigianali è un costo e rischi di avere un prodotto non all’altezza. Così abbiamo deciso di spostarci noi. Io e Mauro Iannantuoni, il mio pasticcere, siamo stati in California a produrre panettoni con materie prime californiane. Vendendoli poi nei negozi Kitchen Town di San Francisco.
Come si crea una rete di relazioni che ti permette di arrivare in California?
Quando hai un negozio su strada, in un giorno ti entrano cinquecento persone. Il segreto è non interrompere il rapporto al semplice «Buongiorno, mi dica»: a Milano c’è una gran voglia di comunicare, e dunque da cosa nasce cosa. Fiere, mercati, manifestazioni ed eventi: sono tutti momenti per creare una rete di contatti e per “incubare” nuove idee. Così si conoscono migliaia di persone, ogni anno. «Spostare il sapere, non le merci» è tutto questo. Le catene di relazioni creano spazi per nuove idee, significati che vanno oltre alla semantica del linguaggio o del semplice business. In tutto questo c’è il pane, la base alimentare per moltissime culture.
Stai rivoluzionando assieme ad altri il significato di “pane, panificazione, panettiere”, portandolo a un altro livello, quasi “filosofico-antroposofico-artistico”. Dove vuoi arrivare?
Mi piacerebbe creare un’azienda solida, avere un’azienda agricola con il mulino, avere la filiera corta, anzi cortissima. Con altri panificatori stiamo formando una holding per condividere strategie, visioni, risorse umane, acquisti, un mulino in Abruzzo. Saremo sei panificatori: Longoni a Milano, “Forno Brisa” a Bologna, “Pandefrà” a Senigallia, “Mamma” a Udine, “TrePi” a Pescara e il “Panificio Moderno” a Rovereto.
Il progetto della scuola di panificazione a Chiaravalle?
Il progetto a Chiaravalle con Andrea Perini va avanti. Abbiamo da poco finito il primo ciclo di corsi. Faremo il laboratorio in un container “TEU”: una struttura mobile con al suo interno il forno e tutto quanto serve per la panificazione. Potremo caricarlo su un camion, su un treno, su una nave, produrre il nostro pane e venderlo. Se apri tutte le paratie, diventa anche un negozio! Il primo sarà a Chiaravalle, un laboratorio completo, anche di vendita.
Come curi la comunicazione? È sempre molto curata?
È un ambito che a me piace molto. Lavoriamo ed elaboriamo la nostra comunicazione su tre canali. Uno è verso i clienti, uno verso i colleghi panificatori – è importante essere un po’ un riferimento – e il terzo è per essere attrattivi verso i lavoratori. Quindi oltre me ci sono altre due persone che lavorano sulla comunicazione. Siamo editori di una rivista che si chiama “L’integrale”, il giornale di “Pane e Cultura”, una sorta di laboratorio cartaceo, incubatore di idee. La cultura alza il valore: il tema è proprio di alzare il valore del pane, facendo percepire al cliente il valore di un prodotto uguale ma diverso. Altrimenti sei solamente caro. Invece, se lavori anche in questa direzione, giochi in un altro campionato e riesci a dare un valore diverso al tuo lavoro. D’altra parte fare una filiera di qualità costa di più. Stare fuori dal mercato globale, come quello del grano, costa molto di più. Fare un’azienda agricola con il mulino, costa il doppio, nella realtà delle cose.
Libro, documentario, progetti speciali: cosa ti sembra meglio per veicolare il tuo prodotto e le tue idee?
Lavorare su più fronti. La rivista sicuramente diventerà una cosa importante. Essere sempre disponibile con il laboratorio aperto a beneficio di tirocinanti, stagisti e colleghi. E poi nei negozi dove occorre una formazione lato vendita: chi vende il pane, deve saperlo raccontare e spiegare.
Il tuo rapporto con i social?
Sono canali per i quali seguo alcune tematiche e scrivo i testi. È una maniera di comunicare, mi piace farlo bene e non in modo superficiale. Trattando molti argomenti, è bello avere un taglio specifico, anche di profondità. La mia ambizione è quella di fare un pane contemporaneo: lavoro pensando al futuro, aggiornando sempre il prodotto tramite la ricerca, anche perché fra dieci anni non è detto che lavorerò ancora lo stesso pane di oggi. Fare il panificatore è un mestiere creativo, ma non dobbiamo percepirci come depositari di un’arte misteriosa, esoterica: è un mestiere che può sempre essere innovato. In questo spazio dove siamo adesso faremo un circolo del pane: voglio mettere su un “laboratorietto”, dove impastare solamente a mano e fare la cottura non in forni professionali. Sarà un luogo di incontro, con una cucina condivisa, la sala, uno spazio dove poter accogliere persone, un luogo comunitario, dove cuocere il proprio pane. Ancora non abbiamo il nome, per ora è il “Circolo”.
Photo cover: @charlieinlove