Il viaggio di un comico con esperienza trentennale dalle nuove frontiere digitali alla tradizione teatrale, tra provocazioni online e risate dal vivo.
Gabriele Pellegrini, in arte Dado, è un comico di lunga data, conosciuto dal grande pubblico per il “Maurizio Costanzo Show” e “Zelig”. È noto per la sua capacità di connettersi con il pubblico attraverso vari mezzi di comunicazione, inclusa la musica. In questa intervista, Dado offre la sua prospettiva sui social media, il viaggio personale nel mondo dell’intrattenimento e i consigli per i giovani aspiranti comici.
Cosa ne pensa e che uso fa dei social media?
Quando mi avvicino alle cose nuove, come quando anni fa sbarcarono nelle nostre vite i social, mi avvicino sempre con curiosità. Volevo osservare i comportamenti, il linguaggio e come il pubblico si relazionava. Sono un frequentatore attivo dei social perché voglio sapere. Ogni periodo storico ha fenomeni di grande rilevanza: non osservare o analizzare questi fenomeni sarebbe sciocco da parte di un artista. Sono curioso di sapere come il pubblico gestisce le situazioni e reagisce, così lancio provocazioni.
Cosa manca nei social secondo lei e quali sono i loro punti di forza?
In realtà, non li giudico. Il giudizio, a mio parere, deve essere solo storico, su un campione di tempo. In un frangente di 100 anni, si potrà tirare una sorta di bilancio su cosa hanno fatto di buono o di male questi social. Secondo me sono una sorta di ammortizzatore sociale della rabbia. Negli anni ’60 c’erano rivoluzioni culturali, pensiamo a quella femminile, e fermento negli anni ’70. Oggi mi sembra che i social diano la possibilità di far consumare un’insurrezione in un post, anche al vetriolo, anziché ricorrere ai sampietrini. Permettono ad una buona fetta di gente di sfogarsi online invece che con la violenza fisica.
Come ha raggiunto il suo personal branding di successo?
I programmi televisivi di un’altra epoca mi hanno dato popolarità, perché i social non esistevano ancora. Facevo un programma molto riconoscibile che era Zelig. In realtà, quando la gente mi vede, mi ricorda ancora legato a Zelig. Andare a Zelig allora significava ottenere visibilità esagerata rispetto ad altre trasmissioni. Sono molto contento e cerco di cavalcare l’onda della popolarità riscontrando i sorrisi nelle persone.
Cosa si aspetta il pubblico da lei?
Il pubblico si aspetta sempre lo stesso da me, come davanti a un ristorante di carne ci si aspetta una buona bistecca, davanti a un ristorante di pesce un buon spaghetto allo scoglio, davanti a uno spettacolo comico ci si aspetta di divertirsi. Far ridere il pubblico è un lavoro complesso: fare in modo che una platea con pensieri diversi tra loro riesca a parlare lo stesso linguaggio e capisca dove ridere e come lasciarsi trasportare sulle onde della comicità, non è facile, ma quando accade è come se fosse una magia. Sono quasi 30 anni che lo faccio.
Quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono seguire le sue orme?
In realtà, sono io che chiedo consiglio a loro. I giovani che fanno stand-up cercano di far parlare l’uomo in prima persona, non più il personaggio. L’uomo sale sul palco e racconta chi è e cosa gli è successo. Questa è una scelta di entrare in empatia con il pubblico mettendo al primo posto l’uomo, non il comico. Lo stand-up comedy è spesso un uomo in piedi sul palco che racconta la propria storia. Il mio spettacolo, invece, è più allargato.
Utilizzo dei “filtri” rappresentati dai miei personaggi, che arricchiscono la performance con diverse sfumature. Nella stand-up tradizionale c’è una linea verticale, mentre la mia è orizzontale. Mi piace chiedere ai giovani comici come affrontano la loro sfida nell’intrattenimento, perché mi piace approfondire il linguaggio e sperimentare. Se dovessi proprio dare un consiglio, direi di lasciare da parte le vecchie battute. È una questione di impegno e di vincere una scommessa. Io personalmente ogni anno cerco di scrivere uno spettacolo nuovo e di creare battute nuove all’altezza delle aspettative.
Qual è il filo conduttore nella relazione tra artista e pubblico?
Ho messo da parte tutto ciò che è meno interessante e tengo solo il buono. Il filo conduttore è scrivere tanto e tagliare quello che non serve per arrivare alla battuta. È una sorta di esercizio registico. La mia è una costante ricerca di dare al pubblico un prodotto che abbia corrispondenza con battute divertenti e possibilmente sempre nuove. In uno spettacolo devono esserci tante battute. Io cerco equilibrio tra il concetto che esprimo e la reazione comica e cerco di mettermi sempre in discussione. Credo nella battuta universale e cerco sempre di cercare l’essenza più pura del far ridere.