Classe 1977, comico e attore italiano noto per la sua partecipazione al programma televisivo “Made in Sud”, Ciro Giustiniani è amato dal suo pubblico: è questo calore che lo spinge a portare sempre avanti la sua carriera con passione.
Ciro Giustiniani riesce a trattare argomenti di grande attualità e rilevanza sociale, trasformando la riflessione in uno spettacolo comico. Tra i suoi personaggi più amati dal pubblico figurano il “Boss delle Cerimonie” e “l’operaio di Pomigliano”. La sua comicità, radicata nella tradizione napoletana, gli ha permesso di conquistare un vasto seguito anche a livello nazionale, come ci racconta in questa intervista.
Quando e come ha iniziato la sua carriera?
Non ricordo il giorno esatto ma ricordo l’ora!
Scherzi a parte, penso di aver sempre fatto ciò che faccio fin da bambino. Mi divertivo a far ridere e dicevo spesso che da grande avrei fatto o il calciatore o il comico. Sono nato a San Giorgio a Cremano e cresciuto a Barra (Napoli), figlio di due realtà diverse. Negli Anni 80, la periferia era vera periferia, con tutte le difficoltà che ne derivavano, e purtroppo oggi sembra tornare indietro nel tempo. La mentalità all’epoca era quella del “posto fisso”: quando parlavo a mio padre dei miei sogni, mi rispondeva di trovare prima un lavoro stabile e poi di fare il comico nel tempo libero.
Avevo come miti Massimo Troisi e Lino Banfi e quando li vedevo in qualche programma tv pensavo: «Guarda questi, dopo il lavoro vanno anche in televisione!». Da bambino, mi esibivo spontaneamente ovunque, dall’oratorio alla scuola, davanti a chiunque volesse ascoltarmi. Ricordo ancora le prime esibizioni improvvisate su una panchina del quartiere, dove ci incontravamo con gli amici. Quando ho iniziato con i primi provini le difficoltà non sono mancate: non avevo soldi per spostarmi e spesso dovevo inventarmi modi per affrontare le spese. Ma avevo fame, fame di emergere e uscire dal recinto, non per vanità, ma per un’esigenza artistica. Penso che un artista non debba mai pensare solo alla monetizzazione, altrimenti si perde l’essenza del mestiere.
Come è arrivato poi ai primi ruoli?
All’inizio tutto era complicato: non c’erano i social per farsi conoscere, la visibilità era un miraggio. Poi un giorno venni chiamato per fare la comparsa in “Un posto al sole”, ed espressi il desiderio di dire qualche battuta, ma mi risposero: «No, prendiamo solo attori». Fu lì che chiesi: «Ma allora come si fa a diventare attori?». Così decisi di iscrivermi a un’accademia di recitazione a Napoli nei primi anni 2000, ma nella mia testa c’era sempre il cabaret. Cominciai a fare provini e serate a Roma, fino a quando non ebbi l’opportunità di partecipare a un laboratorio comico a Napoli. Poi arrivò il programma “Made in Sud”, e lì è cambiato tutto. Quella trasmissione è stata una palestra incredibile, un’occasione per crescere e perfezionarmi. Da quel momento, non mi sono più fermato. Sono ormai 20 anni che vivo di questo lavoro.
Quali sono le sue strategie per evolvere e mantenere la sua comicità sempre fresca?
Credo che la chiave sia crescere continuamente, esplorare nuovi orizzonti e restare sempre al passo con l’evoluzione del mondo. Cerco di arrivare al pubblico con la presunzione, se così si può dire, di essere sempre me stesso, ma al tempo stesso umile. Ho una certezza: so da dove vengo, so quale è stato il mio punto di partenza, ma non so dove arriverò. Ed è proprio questa consapevolezza che mi spinge a migliorarmi costantemente. Ho avuto la fortuna di fare piccole esperienze cinematografiche: con Nino D’Angelo, Valeria Golino e anche con Giampaolo Morelli. Tuttavia, il mio grande amore resta il live, il teatro comico. È lì che la comicità trova la sua dimensione più autentica. La televisione, per quanto sia importante, spesso concede poco spazio ai comici: esibizioni brevi, lampi di risate che non riescono sempre a raccontare l’anima del nostro lavoro. Il teatro, invece, ti permette di esplodere, di vivere ogni battuta, ogni gesto, in un dialogo diretto col pubblico. Oltre alla comicità live, ho esplorato altre forme di espressione, come la scrittura. Ho pubblicato due libri.
Da dove è nata l’idea di scrivere due libri?
Il primo, nato da un’esperienza con la Rai, racconta una vicenda della mia vita ed esplora il tema del contrasto tra il comico e il “posto fisso”, una condizione che non mi apparteneva. È una sorta di romanzo che intreccia comicità e riflessione sulla vita quotidiana. Il secondo libro, “Kitemmorto”, è la storia di un ragazzo che scende nelle viscere di Napoli e incontra il suo personale Virgilio. È un titolo che amo definire “croccante”, per un racconto pieno di filosofia, con uno stile che tenta di fondere comicità e profondità. Sto anche lavorando a un’evoluzione nel cinema: ho scritto dei soggetti che vorrei sviluppare e trasformare in film. È un mondo che mi affascina e che vedo come un passo naturale nel mio percorso artistico. E poi c’è il web, uno strumento fondamentale oggi. Ho in serbo un progetto legato a un format innovativo, qualcosa che possa sfruttare le potenzialità della rete per portare la comicità a un nuovo livello. In fondo, la mia strategia è semplice: non fermarsi mai. Crescere, adattarsi, sperimentare. Perché la comicità, come la vita, ha bisogno di evolversi per restare viva.
Qual è il segreto del suo successo?
Non penso di aver raggiunto il successo. Comunque se sono arrivato dove sono ora credo sia perché ho sempre puntato tutto sulla semplicità e l’autenticità. Non ho mai pensato di dover recitare fingendo di essere qualcun altro. È una regola che mi sono dato fin dall’inizio: non recitare mai, ma vivere ogni battuta, ogni scena, come parte di me. Per me l’arte è un’espressione personale. Anche quando non sono io a scrivere i testi, cerco sempre di aggiungere un tocco autentico, qualcosa che mi appartenga, perché sono convinto che il pubblico percepisca quando c’è verità. Non si può costruire un rapporto con le persone se non si è onesti, se non si dà loro qualcosa di autentico. Alla fine, penso che il successo arrivi quando sei te stesso, quando hai il coraggio di mostrarti per quello che sei e non per quello che pensi gli altri si aspettino da te. Questo è il mio segreto, se così si può chiamare: essere Ciro, sempre e comunque.
Chi sono le sue fonti di ispirazione?
Beh, la lista è lunga, sono sempre stato affascinato dal carisma unico di Carmelo Bene, dalla delicatezza e profondità di Massimo Troisi, e dalla goffaggine positiva di Lino Banfi. Poi c’è Carlo Verdone, con quel suo modo straordinario di essere autentico e carismatico in ogni interpretazione. Questi sono artisti che non solo facevano ridere o emozionare, ma che mettevano una parte di sé in ogni cosa, rendendo il loro lavoro personale e inimitabile. L’ispirazione più personale, però, mi è sempre arrivata da Pino Daniele e Riccardo Pazzaglia. Pazzaglia, con la sua filosofia e il suo modo unico di intrecciare comicità e riflessione, mi ha fatto capire che la battuta non è tutto. Io non sono alla ricerca spietata della risata immediata, ma della descrizione, del racconto che ti immerge in una situazione. Mi considero un cronista, perché il mio divertimento sta proprio nel descrivere ciò che vedo, nel modo più vivido e coinvolgente possibile.
Perché proprio Pino Daniele, che è stato un grandissimo cantante e apparentemente lontano dal mondo della comicità?
Perché da lui ho imparato a vedere la poesia nel quotidiano, anche nei dettagli più semplici. Ho scritto monologhi ispirandomi al suo stile narrativo, quel modo di raccontare Napoli che ti fa sentire i vicoli, le voci, le storie. Prendi una delle sue canzoni più celebri, quella che parla di un uomo che vende taralli: è una scena che sembra banale, ma Pino la trasforma in un affresco. Io ho sempre voluto fare lo stesso, raccontare storie che nascono dalla semplicità, ma che racchiudono una profondità universale. È questo che cerco di portare nei miei lavori, questa capacità di descrivere la vita con autenticità e passione.
Come vive il confronto con i colleghi?
Osservo molto. Credo che chi realizza qualcosa di bello vada applaudito, perché nel nostro mondo il successo è una vittoria per tutti. Se c’è bisogno di una mano, che sia un aiuto morale o pratico, io ci sono. Ho imparato a non vedere gli altri come rivali, ma come compagni di viaggio. È chiaro che ammiro chi sa fare bene il proprio lavoro, ma quando un collega sbaglia, l’impatto negativo si riflette su tutto il nostro ambiente, e nessuno ne trae beneficio. Per questo cerco di essere un tifoso sincero. Zelig, ad esempio, ha aperto la strada a “Colorado” e “Made in Sud”. Questo dimostra che il successo di uno non è mai una sconfitta per un altro, anzi è un passo avanti per tutti.
Quanta consapevolezza ritiene di avere di sé e della sua arte?
Penso molta. In questo lavoro bisogna essere realisti. I fallimenti sono sempre dietro l’angolo. È come camminare su un terreno pieno di buche: devi fare attenzione a ogni passo. Io preferisco restare sul marciapiede, perché conosco i miei limiti e so su quali corde posso giocare. La consapevolezza di sé è fondamentale. Penso a Baresi, Franco Baresi, che rendeva semplici anche le cose più complicate. Ecco, nella semplicità risiede la vera forza. Se ti perdi in inutili complicazioni, alla fine sbagli. La mia comicità riflette tutto questo. Cerco di mostrare i difetti, le abitudini e i costumi delle persone comuni. È così che il pubblico si riconosce e si avvicina.
Che consiglio darebbe a chi desidera seguire le sue orme?
Le mie orme? Meglio non seguirle. Bisogna seguire quelle dei grandi, di chi ha lasciato un segno davvero importante. Le mie orme non sono quelle di un gigante, io seguo qualcosa di più grande di me. Odio quando mi chiamano maestro! Non sono uno che ama dare consigli, ma se dovessi parlare al ‘giovane Ciro’ che è dentro di me, gli direi solo una cosa: sii sempre sincero. Non artefatto. La comicità deve essere autentica, almeno per come la vedo io. Non condanno chi la interpreta diversamente, ma non è il mio stile. Quando ho fatto la parodia del “Boss delle Cerimonie”, mi sono divertito perché usciva il bambino che è in me. Quel bambino è fondamentale: se non gli apri il cancello, sono guai. Il bambino deve giocare, deve essere libero, non represso. Se mi diverto prima io, allora sì, posso trasmettere qualcosa a chi mi ascolta. Ma se non mi diverto, come posso pensare di far divertire gli altri? È tutto lì: lasciarsi andare, non prendere tutto troppo sul serio, e ricordarsi sempre di giocare.
Photo credits di Francesco Fiengo