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Il brand di Stefano Ferri, l’imprenditore etero che ama indossare gonne e tacchi a spillo

di Cinzia Ficco
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«Se dovessi appiccicarmi un’etichetta? Punterei su un’espressione inglese, che è myself. Del resto, trentasei dei miei quasi cinquantasei anni li ho trascorsi per lavorare su me stesso, riscoprire me stesso e imparare a comunicare me stesso, senza timore, né vergogna. Il mio brand, dunque, non può che essere la mia figura intera, con le mie gambe in gonna, in sandali o tacchi a spillo da 11 centimetri – l’accessorio che preferisco – le unghie dei miei piedi laccate di rosso o marrone, una collana – in genere di perle – e una borsetta. Da venti anni sono fieramente e felicemente me stesso e non mi tradirò mai più».

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Così Stefano Ferri, classe ’66, milanese, imprenditore, comunicatore, pubblicitario, racconta la sua vita, dopo aver scoperto Stefania, la parte che «gli sta fuori, anzi, accanto», quella che gli stava facendo saltare il suo matrimonio con Licia, gli ha fatto perdere un lavoro prestigioso, oltreché fatto precipitare in un lungo periodo di depressione e smarrimento.

Come scrive nel suo libro “Crossdresser – Stefano e Stefania, le due parti di me”, pubblicato di recente da Mursia, ci sono voluti anni di psicanalisi con Anna, una psichiatra, la pazienza diventata complicità di Licia, l’amore di sua figlia Emma, oltre alla sua determinazione, per ricomporre i cocci di un vaso che si era rotto in California, il primo giugno 2011.

In quell’occasione Stefano, che all’epoca era un pr di successo, conduce una selezione di imprenditori italiani alla stipula di importanti accordi commerciali. Dettaglio di non poco conto, si presenta vestito da donna: tubino, tacchi, trucco leggero. Nel tempo Stefano si era costruito una reputazione, nonostante gli abiti femminili, ma quel giorno le cose non vanno. Due fanatici religiosi s’impuntano perché venga escluso dall’evento. Da quel momento la situazione precipita, l’esito dell’incontro viene compromesso, i partecipanti danno la colpa a lui. Poi tutto a valanga. Stefano viene travolto sia nel lavoro, sia nelle relazioni più care, ritrovandosi da solo dinanzi alla domanda più difficile: Perché non riesco a fare a meno di indossare abiti femminili e non sopporto più quelli con cui ho conosciuto Licia e mi sono sposato?

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La diagnosi della psichiatra-psicanalista, che con lui percorre il viaggio a ritroso dei sette anni di progressiva femminizzazione del guardaroba maschile (iniziati con l’acquisto di abiti damascati, giacche da damerino del ‘700, camicie di organza), dà una lettura che agli inizi Stefano non accetta per paura, ma che oggi accoglie con serenità. Per spiegarla, ha appunto scritto il libro.

«Con i miei familiari – afferma – ho sempre avuto un certo pudore. Mia mamma, una donna fragilissima, non mi ha mai visto in abiti femminili perché è morta prima».

Con suo padre, invece, Stefano non ha avuto difficoltà a svelarsi. «Un paio di jeans, sempre lo stesso, messo per anni, gli aveva fatto intuire il crossdressing. Il guaio, mi disse, è che tu non appartieni a una categoria già esistente. Sei il nuovo. E sei unico. E il mondo è feroce».

Anche con Emma, nata nel 2009, quando Stefano indossava già abiti femminili, non ci sono stati problemi. «Fin dalla sua nascita mia figlia ha visto un papà in gonna e una mamma in pantaloni. Una volta mi ha chiesto se fossi un femmino, ma non è certo una bambina traumatizzata, perché ha capito che è solo per una convenzione culturale che alle donne è permesso di scegliere tra tacchi e mocassini, mentre agli uomini no. Nonostante la sua età, ha già compreso quanta ipocrisia ci sia nella nostra società e che, se non vivi a Milano, è dura per gente come suo padre. Ti dico questo perché ho circa ventimila follower tra tutti i social: e non immagini quanta gente viva il disagio perché non ha il coraggio di rivelarsi. In tanti in privato mi chiedono cosa fare. Qualche giorno fa mi ha scritto un uomo che da 44 anni vive l’inferno che ho vissuto io e prega Dio di morire. E solo perché il nostro mondo è malato. Perché tante donne mettono pantaloni, scarpe rasoterra, cravatta e nessuno fiata e noi siamo ricchioni, se ci vestiamo come loro? Perché due gambe pelose in minigonna sono segno di una malattia mentale, di una perversione?»

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«Alla mia casella di posta elettronica arrivano email di bisessuali, transgender che si sentono ghettizzati, subiscono di continuo intimidazioni, commenti sgradevoli.  Mi auguro che un giorno la mia esperienza aiuti queste persone ad uscire allo scoperto, senza temere ritorsioni. Si parla di inclusione, ma cosa si fa realmente per proteggere chi non ha coraggio e preferisce sopprimersi per non sentirsi chiamare frocio o malato? Anche io sono spesso bersaglio di parole feroci. Alcuni uomini mi vedono come un debosciato. Per alcune donne sono uno sgorbio della natura. Ma si tratta spesso di quelle non risolte che, evidentemente, non hanno fatto pace con la propria sessualità».

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«Io non ho più paura. Stefania ha rafforzato il mio matrimonio con Licia che – dopo aver avuto il tempo necessario per capire (dieci anni) e aver visto che non avrei fatto passi indietro, nonostante i suoi divieti – ha fatto cadere ogni resistenza. Inoltre, è stato grazie a Stefania che ho scoperto la mia vera inclinazione professionale, che è occuparmi di pubbliche relazioni. In passato, ho diretto una rivista specializzata per quattro anni. Avevo potere, ma non ero felice. Grazie ai miei abiti femminili sono diventato quello che volevo essere: un uomo immagine, da guardare tutto intero, anche se a qualcuno potrà fare ribrezzo. Quindi, grazie alla donna che mi sta fuori ho tutto quello che desidero. Certo, c’è gente che dice: È tutta una messinscena, lo fa per avere successo, riflettori e lavoro. Ma io non ho mai brigato per avere qualcosa, semplicemente sto dietro alla mia natura, grato del destino per avermela fatta incontrare, per quanto amaro sia stato quell’incontro. Non cerco notorietà, né qualche like in più sui social. Se posto le mie foto in tailleur e gambe scoperte è perché è il mio IO più profondo a chiedermelo. E non ho più sensi di colpa nel raccontarlo al mondo. Per questo non mi sento meno uomo».

Non indosserai mai più abiti maschili?

«Non lo desidero. Sto bene così. L’ho fatto per troppo tempo. È da quando avevo nove anni che mi sono innamorato di tacchi e gonne. Indosso solo la maglietta della Nazionale quando gioca l’Italia. Ma solo per divertirmi».

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Stefano Ferri vive a Milano dove è giornalista e consulente in comunicazione. Nel 2004 ha ricevuto il Premio Hilton per il giornalismo specializzato in turismo d’affari e nel 2006 il Premio Italia for Events per la stampa di settore. Eterosessuale, innamorato della sua famiglia, da molti anni è attivo nella difesa dei diritti civili. Non si stanca di dare testimonianza della sua condizione di crossdresser su giornali, tv e social media.

 

Cinzia Ficco

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