L’attrice pluripremiata e scultrice ha esplorato il mondo dell’arte in tutte le sue sfaccettature. Attraverso una continua metamorfosi, ha saputo fondere l’espressività corporea con una ricerca materica che si esprime in installazioni leggere ma potenti. Un racconto che abbraccia più discipline artistiche, creando un linguaggio personale.
Nata a Napoli nel 1970, Antonella Romano ha attraversato nel corso della sua carriera una straordinaria evoluzione. Iniziata nel mondo del teatro con esperienze significative, nel 2005 si è affermata come migliore attrice giovane vincendo il Premio Giuralà per lo spettacolo “L’Ereditiera” di Annibale Ruccello, diretto da Arturo Cirillo. Successivamente, lo studio approfondito della danza contemporanea ha portato Romano a esplorare il potenziale espressivo del corpo, attivando nuove forme comunicative che l’hanno spinta a espandersi anche alle arti figurative. Attraverso questa versatilità creativa, l’artista campana ha saputo reinventarsi costantemente, sperimentando linguaggi diversi per dare vita a un percorso artistico unico e multidisciplinare.
Come si è evoluto il suo lavoro?
Classe 1970, nel 1991 mi avvicino al teatro formandomi all’Accademia D’Arte Drammatica del Teatro Bellini di Napoli, approfondendo gli studi con master di danza contemporanea, musica e canto. Ho lavorato con Renato Carpentieri, Isa Danieli, La Fura del Baus, Arturo Cirillo , Lluis Pasqual, Cristian Plana, Cristina Pezzoli, e alcuni dei miei progetti in collaborazione con Rosario Sparno sono giunti fino a New York per il Festival InscenaNY. Durante la carriera trentennale di attrice, ho acquisito la consapevolezza e la forza dell’espressione corporea e mi sono interrogata sempre più intensamente sulla necessità di trascendere il corpo, plasmare la materia e utilizzare l’esperienza acquisita per modulare l’espressione dei luoghi che abito, in cui riverso la mia emotività sotto forma di scultura. Con un rituale lento e laborioso ricamo chilometri di fil di ferro esclusivamente con l’uso delle mani. Il mio è un lavoro mantrico, il cui processo creativo ricorda quasi un derviscio, una danza con lo spazio vuoto e in questo modo l’opera ha origine da una forza interiore, l’introspezione prende forma e quella fragilità che abita nel nostro profondo si plasticizza in sculture leggere come la tecnica del ricamo con cui sono realizzate, ma stabili e solide come il ferro che le costituisce. I miei lavori sono “abitabili”, perché sembra quasi di poter transitare in loro, e la luce gioca un ruolo fondamentale, divenendo elemento tangibile nella costruzione dell’opera.
Quanto c’è del teatro nella sua relazione con la scultura?
Il mio incontro con l’arte nasce proprio per mezzo del teatro, il quale non è soltanto una metafora della vita, ma una tecnica di svelamento. L’attore coincide con l’uomo, per cui il lavoro prevede, un attraversare, un conoscere e uno svelare. L’essenzialità della vita, la natura delle relazioni, lo sguardo verso la creatività, la negazione, la malattia, il mutamento, sono il respiro della ricerca scenica e artistica. Pertanto l’evoluzione di un processo creativo, così importante per la conservazione della sua vitalità, non coincide nel perfezionamento della forma, che lo rende statico, ma appare come un viaggio nel tempo fisico e interiore, in cui la speranza si nutre di incontri inaspettati, dell’attesa di qualcosa di inatteso, di deviazioni, di ricerca della giusta strada, e sarebbe fatale per la creazione persuadere se stessi che ci si muove lungo una linea coerente e conosciuta. La linea non è che una traccia. L’arte è un’avventura in un mondo sconosciuto, che può essere esplorato solo da chi ha la forza e l’audacia di rischiare.
Come è nata la sua passione per l’intreccio del filo di ferro?
Il teatro ha anche reso possibile la scoperta di questa mia nuova forma espressiva. Tutto nasce da una residenza artistica con il Teatro dei Sassi di Matera nel lontano 2004. Vivevamo praticamente in un teatro tutto il giorno, si lavorava sul testo, sulle azioni sceniche, sul sentire. Il teatro ti porta a entrare nel tuo profondo e a condividere con i tuoi compagni di lavoro ogni singola emozione ed esperienza. Ricordo che un giorno alla fine della sessione di lavoro, Massimo Lanzetta, il regista, e parte del gruppo, si dedicarono alla creazione di giostrine mobili in sospensione, fatte con ruote di bicicletta da bambino a cui venivano applicati dei fil di ferro con pezzi di specchio, pietre colorate, piume e quant’altro, io chiesi se potevo aiutarli e fu lì che iniziò il mio primo incontro con il fil di ferro. Tornata a Napoli decisi di crearmi il mio giocattolo mobile, comprai una matassa di fil di ferro e creai la mia giostrina.
Alla fine, di quella grande matassa, restò tanto fil di ferro non utilizzato e lo arrotolai come un grande gomitolo di lana, lo lasciai per mesi e mesi in un angolo della mia casa e di tanto in tanto lo prendevo e mi chiedevo cosa si sarebbe potuto fare con quel gomitolo di ferro. Un giorno nel prenderlo cominciai a scioglierlo e iniziai a ricamare, da allora non mi sono più fermata.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Collaborerò con il Teatro San Carlo per un progetto delle Officine San Carlo, e sto preparando una nuova installazione “Respect me”, un progetto sulle donne violate.