Quando fai ciò che ami davvero, gli altri lo percepiscono. Parola dell’attrice napoletana Antonella Morea che, tra teatro, tv e web con il ruolo della mamma in Casa Surace, dimostra quanto la spontaneità sia una forza dirompente, capace di superare qualsiasi tecnica di comunicazione. È così che nasce un rapporto unico con il pubblico.
Antonella Morea, un’artista eclettica, con la tradizione che sembra scorrerle nel sangue, nasce in una famiglia che porta l’arte come eredità preziosa; dal canto alla recitazione, dal teatro alla tv fino al web nei panni della famosissima mamma di Casa Surace. Renato Carosone, zio da parte materna, e una bisnonna attrice che calcava le scene accanto a Scarpetta o Viviani, sono i volti di una genealogia che racconta storie di arte recitata e musica. Eppure, da bambina, Antonella non immaginava che il palco sarebbe diventato il suo destino. Le sue giornate erano un gioco fatto di dischi di Mina suonati a tutto volume, di canzoni cantate per se stessa, lontano dagli occhi degli altri. Esibirsi non era un desiderio, almeno non consapevolmente. Dopo la scuola, un’amica e una chitarra furono i suoi primi complici. Le offrirono un provino per un locale a Napoli. Fu l’inizio.
Antonella cominciò a cantare, a suonare, a costruire spettacoli insieme a nomi che avrebbero segnato la sua crescita artistica: Mario Maglione o Alberto Amato. Era una cantante folk, con una voce che sapeva raccontare il cuore della sua terra.

Photo: Vito Fusco
Ci racconta come è iniziata la sua carriera?
La televisione arrivò quasi per caso, con “Tele Napoli” e la trasmissione “Prova Generale”. Vinsi una puntata, e da lì, la mia strada cominciò a intrecciarsi con il teatro popolare, accanto a grandi interpreti della tradizione napoletana. Ero una spugna, assorbivo dai grandi, rubavo il mestiere con un’umiltà che cerco di portare sempre avanti e che mi spinge a voler imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Il mio viaggio nel teatro si arricchì di incontri significativi. Un regista, un giorno, mi convinse a posare la chitarra e a recitare, era il regista Lucio Beffi. All’epoca in voga andava il teatro epico, di matrice brechtiana, dove il canto si intrecciava con la parola. All’inizio titubante, mi lasciai guidare, scoprendo una nuova parte di me. Fu Clelia Matania, collega e amica, a suggerirmi un provino con Roberto De Simone per “La Gatta Cenerentola”. Cercavo però scuse per evitare quell’appuntamento. Alla fine, decisi di andare. Con addosso il mio amore per Gabriella Ferri – vestita e pettinata come lei – mi presentai al maestro. C’era un’aura di sogno in quell’incontro. Quando De Simone mi chiese di cantare lo feci, poi dovetti confessargli che ero un autodidatta, e il maestro si dichiarò conquistato dalla mia voce autentica. Ricordo una giornata di prove che fu un momento magico. De Simone arrivò con una grande borsa e una tammorra. Cominciò a suonare e a danzare, in un’esplosione di energia che coinvolse tutti. Inizialmente intimorita poi mi lasciai trascinare da quel ritmo primordiale.
Ci può dire quale è stata l’emozione più grande di quel periodo?
Le emozioni di quel periodo sono state tante, straordinarie e indimenticabili. Quando debuttammo a Spoleto con “La Gatta Cenerentola”, però, non avevo ancora una percezione chiara dell’importanza di ciò che stavamo facendo. Ricordo, come se fosse ieri, il momento in cui il sipario si aprì: dal palco vidi Romolo Valli, uno dei più grandi attori italiani all’epoca, e solo allora compresi la grandezza e la rilevanza dello spettacolo. Fu un’emozione travolgente. Ma la vera svolta arrivò con i venti minuti di applausi: lì mi resi conto dell’enorme responsabilità che avevamo nei confronti del pubblico.
Quali sono state le sfide più grandi che ha incontrato nel suo percorso?
Il maestro De Simone un giorno mi disse di liberarmi del trucco che portavo sempre come una specie di protezione e di mostrarmi per quella che ero. E io lo feci. Lentamente, iniziai a costruire una maschera fatta non di colori sul viso, ma di forza interiore.

Photo: Carmine Luino
De Simone è stato l’unico vero maestro che riconosco nella mia vita. Grazie ai suoi insegnamenti, ho sempre trovato la forza e la determinazione per andare avanti. Con lui ho imparato che l’arte richiede disciplina, dedizione e coraggio.
Ci svela qual è il segreto per ricordare le battute?
Per me è fondamentale la memoria visiva. Mi aiuto immaginando le pagine e le parole scritte, e poi è tutto questione di allenamento. La memoria, come un muscolo, va esercitata.
Per esempio, ora sto studiando un testo scritto da uno psichiatra, e non è semplice! A volte manca quel collegamento immediato: devi avere una mente quasi matematica per costruire le frasi. A teatro, invece, bisogna rispettare le parole dell’autore. È essenziale capire il linguaggio, lo stile, e fare proprie le idee che esprime. Non puoi inventarti parole tue: devi sapere il concetto e restituirlo con precisione. Certo, se capita di dimenticare, l’improvvisazione può essere un’ancora di salvezza, ma deve sempre rispettare lo stile dell’autore.
Qual è la differenza tra recitare in televisione e a teatro?
In televisione devi stare attento a tutto: come sei ripreso, se sei in primo piano o di spalle, se devi servire la scena o essere al centro. È un lavoro che puoi costruire un po’ alla volta, anche foglio per foglio, tra una ripresa e l’altra. C’è tempo. Come diceva il buon Nino Manfredi: «Piglia ‘na sedia e assettate». La recitazione cambia molto a teatro dove devi portare la voce, spingerla fino all’ultima fila, perché tutto è grande, anche i gesti. In televisione, invece, si tende a togliere.
Segue una strategia di personal branding precisa?
Ho uno staff che si occupa della gestione dei miei social, soprattutto per comunicare i miei impegni artistici. Ma io mi definirei l’anti social. Pubblico solo ciò che mi piace e che mi fa piacere condividere, senza seguire tecniche o strategie per aumentare la visibilità. Per come sono fatta, credo che perdere la spontaneità significherebbe perdere anche l’essenza di ciò che voglio trasmettere.
Eppure, le visualizzazioni dei suoi video su Casa Surace sono milioni. Come se lo spiega?
La risposta è semplice: spontaneità. Non penso mai al numero delle visualizzazioni, mi concentro su quello che mi diverte e cerco di farlo al meglio. Credo che quando qualcosa nasce con autenticità e passione, le persone lo percepiscono e lo apprezzano.

Photo: Carmine Luino
Ci racconta della sua collaborazione con Casa Surace?
Sono una freelance, porto avanti i miei monologhi e parallelamente collaboro con Casa Surace. È iniziato tutto nel 2016, quando mi hanno chiamata per partecipare ai loro video. È stata un’esperienza di grandissimo divertimento, anche se sembrano cose semplici, richiedono velocità e spontaneità. Una volta che entri nello stile della ‘mamma del Sud’, il personaggio ti viene naturale.
Con Casa Surace non ci limitiamo solo a video comici: a volte affrontiamo anche tematiche sociali. È un linguaggio veloce, immediato, pensato per i social. Non puoi ragionare troppo, devi agire d’istinto e parlare chiaro, perché la gente vuole ascoltarti e farlo in fretta. All’inizio ho faticato ad accettare questa rapidità, ma il regista mi ha detto: «O ti muovi o nessuno ti ascolta». Ed è vero: il linguaggio dei social è fatto di ritmo e immediatezza. Partecipiamo anche a progetti pubblicitari, eravamo lo sponsor di un detersivo molto noto in Italia, quest’anno abbiamo partecipato allo spot per la marca Maybelline New York.
Cosa direbbe a un/a giovane che desidera seguire le sue orme?
Goditi ogni momento di ciò che stai facendo, perché arriveranno tempi difficili. Lavora sodo, studia sempre e non smettere mai di crescere. Hai fatto bene a scegliere questa strada, abbine cura. Mantieni la tua purezza, la tua ingenuità. Non perdere mai quel lato di te, perché è la tua forza. Dentro di me, c’è ancora quella ragazza che non ha ancora subito dolori. Eppure, anche quelli ti aiutano nel lavoro: ti insegnano a portare la verità sulla scena.
Che rapporto ha con i giovani?
Li adoro. Collaboro con loro perché so cosa vuol dire essere all’inizio, con l’entusiasmo e la paura. Tutto è iniziato quando Luca De Filippo mi chiese di fare una masterclass. Mi trovai davanti una classe di quasi 300 ragazzi. Io, inizialmente, non sapevo cosa dire. E allora portai quello che conoscevo: la mia “Gatta Cenerentola”. Abbiamo recitato, fatto teatro vero, e loro mi hanno seguito. Un giorno, un gruppo di quei ragazzi mi sorprese. Hanno scritto un testo meraviglioso: Felicissima Jurnata. Si erano ispirati alle interviste che avevano fatto a donne del Rione Sanità, donne che vivono chiuse nei loro mondi, in mezzo al chiasso della vita, ai motorini che fanno rumore, alla vita grama di quartiere. Eppure quelle donne resistono, combattono. Quel testo parlava di loro, di voci sott’acqua, di persone che parlano attraverso bolle d’aria. Abbiamo presentato questo lavoro alla “Primavera dei Teatri”, una piccola Spoleto dove si incontrano tutti i critici. Ricordo che mi fecero tanti complimenti. Mi proposero addirittura per il Premio UBU. Tornai da lì con un successo inaspettato, come se fossi tornata ragazza. Ora inizieremo una piccola tournée, porteremo questo spettacolo in giro per l’Italia.

Photo: Luciano Romano
Quale valutazione darebbe di sé stessa alla luce dei suoi cinquant’anni di carriera?
Credo che ogni attrice conosca i propri momenti di crisi. So perfettamente quando qualcosa non funziona, se la voce trema o se la memoria vacilla. Lo senti, e non puoi nasconderlo nemmeno a te stessa. Ci sono giorni in cui mi detesto, quando sento di non essere all’altezza, quando ogni battuta sembra pesante e fuori posto. Ma poi ci sono quei momenti in cui tutto scorre. Quando salgo sul palco o sono di fronte a una macchina da presa e sento che ogni parola, ogni gesto è esattamente dove deve essere. Mi piaccio, allora. Mi piaccio davvero. Sono ipercritica, è vero. Lo sono sempre stata. Forse perché so quanto sia prezioso questo lavoro, quanto sia fragile.
Photo cover: Carmine Luino